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la letteratura ladina delle dolomiti bellunesi

adeodato piazza niccolai

La definizione classica di letteratura è: “Da lettera (lat. lettera, segno dell’alfabeto) deriva il termine che significò in passato semplicemente ‘scrittura’ e in seguito valse a indicare, in tutte le lingue, neolatine e non, che lo adottarono, il complesso degli scritti, specialmente di valore artistico, appartenenti a una determinata lingua.”1 Una de-finizione più moderna e forse meno ortodossa accetta non solo le opere standard di un paese ma anche quelle nate da lingue cosid-dette “minori”, come i tanti dialetti italiani; La letteratura creata da minoranze etno-linguistiche (per esempio ladini, sardi, catalani, afro-americani, italo-americani, ecc.,) al giorno d’oggi non è più consi-derata una produzione di inferiore qualità e spessore se paragonata a quella ufficiale, canonica; neppure quella ibrida che nasce a causa dei vari flussi migratori umani.2 Tante antologie di scrittori dialettali e neodialettali danno prova concreta di letteratura ad altissimo livello artistico che convive a fianco di quella tradizionale.3 La letteratura “dialettale” non è più marginale bensì centrale nella nostra cultura postmoderna.
Dopo lunghe battaglie, dalla fine della seconda guerra mondiale anche critici come Mengaldo hanno concluso che non si può più parlare di letteratura come una condizione di either/or, cioè, o l’una (monolinguismo) o l’altra (plurilinguismo), ma di and/and; cioè, sia l’una che l’altra ora convivono a pari merito.4
Il ladino, che infatti non è un dialetto ma una lingua, merita un riconoscimento di parità indiscussa con l’italiano. Ma dal punto di vista storico, quando inizia il percorso della letteratura ladina dolo-mitica? Le fiabe, miti, leggende, proverbi, filastrocche, ecc., traman-dati oralmente da generazione a generazione, a partire dal tardo cinquecento, fanno parte del canone letterario ladino oppure si deve datare l’incipit dall’apparizione delle prime opere artistiche stampate? Altra distinzione obbligatoria è legata alla qualità letteraria dell’opera. Ovviamente non tutti i libri sono opere d’arte, sia in italiano che nelle altre così dette lingue “minoritarie”. Non è mai facile distinguere l’una dall’altra.
La cultura di un paese è ancorata nella sua letteratura, e ogni lettera-tura ha le sue radici nella poesia che, storicamente, precede la narra-tiva. Perciò i primi testi ladini documentati salgono ad alcune tradu-zioni poetiche dell’ 800, fatte da qualche prete e/o professore che, situato nei villaggi agordini, ampezzani, alpagotti e cadorini, voleva condividere, in ladino, un suo brano preferito colto dal Vangelo, alcuni canti della Divina Commedia, come pure il Canto VII della Gerusa-lemme Liberata5. Poiché un profilo storico della poesia ladina è già apparso6, il presente saggio si concentrerà sulla narrativa, teatro, e opere musicali in ladino per presentare una prospettiva completa della letteratura ladina delle Dolomiti bellunesi. In contrasto con altre zone ladine che preservano testi scritti che vanno dal metà-Seicento al tardo Ottocento – nell’area friulana un racconto burlesco di Giam-battista Donato (1536-1599), un testo teatrale di Ermes di Colloredo (1622-1692), alcuni racconti e leggende di Caterina Percoto (1812-1887);7 nell’area gardinese, opere del sacerdote John Augustus Perathoner, del professor Francesco Lunelli e di Mathias Ploner; nell’area marebbana le poesie di Agno Trebo8 – nella ladinia bellunese le prime opere di narrativa vanno dagli ultimi anni dell’Ottocento ai primi del Novecento.
Varie teorie cercano di spiegare i perché di questo divario temporale fra le varie aree ladine: forse la carenza di scrittori, il disinteresse comune, e un mancato dialogo fra gli artisti hanno ritardato la realiz-zazione di opere letterarie, in particolar modo a quelle di narrativa, nella ladinia delle Dolomiti bellunesi. I primi testi stampati erano di carattere religioso, brevissimi racconti o aneddoti popolari umoristici, seguiti da opere con aspirazioni proprie della letteratura colta (vedi Walter Belardi).
Da non dimenticare che la geografia è anche uno spazio mentale o, meglio, culturale, e non soltanto un insieme di luoghi fisici nel senso stretto del termine; perciò l’isolamento geografico delle vallate ladine è sicuramente stato un fattore determinante nel tardivo sviluppo delle loro letterature di “confine”. Altri motivi per questo “ritardo”, dice Walter Belardi sono “relegati, purtroppo, ai margini dell’antica romanità, vincolati a un regime economico chiuso e severo di tipo silvo-pastorale, non sollecitati da necessità alcuna interna ad aprirsi a novità tecnologiche, i Latini-Ladini, ristretti realmente nelle valli dolo-mitiche fin dalle prime invasioni barbariche e poi dalle successive invasioni baiuvariche dal nord e slave dall’est, dalla pressione longobarda e poi franca dal sud e dall’espandersi di Venezia dal Sud-Est, si ridussero a vivere per centinaia di generazioni in poche valli pressoché isolate, con l’aiuto di tecniche semplici ed essenziali ma oramai ben collaudate ed adeguate agli scarsi ma fondamentali bisogni imposti dal ritmo duro delle stagioni, i veri custodi del silenzio, tacquero a lungo parole che aspirassero a spazi spirituali più ampi di quelli sacri del lavoro, della famiglia, della chiesa, dell’ambiente dolomitico, il quale già per dono naturale ha l’aspetto di un’opera d’arte.” 9 Non esistevano, come adesso, le possibilità di dialogo fra centro e periferia, città e villaggi fisicamente lontani tra di loro. Due secoli fa autori napoletani, romani, milanesi, fiorentini, veneziani quasi mai scambiavano idee, scritti, teorie con quelli dei paesetti e villaggi di pianura e di montagna, per non dire dell’assenza di scambi fra ladini e letterati dei vari paesi d’Europa. Qualche raro scrittore, in villeggiatura sulle Dolomiti, forse trovava un modo di dialogare con quei pochi montanari ladini appassionati di letteratura, e spinti a scrivere le proprie esperienze, osservazioni e visioni. L’antecedente e alquanto generalizzata inchiesta sulla narrativa ladina bellunese del Sette-Ottocento vuole lasciare uno spazio più ampio alle opere del Novecento.

Narrativa

Nel 1982, seguendo l’esempio di alcuni preti-autori-traduttori dell’Ottocento, l’artista Giovanni De Bettin (Costalta di Cadore, 1923-2006) traduce in ladino alcuni capitoli dei Promessi sposi manzoniani, con il titolo I Nvižes, dichiarandola una “libera traduzione e interpre-tazione”. È uno dei primi esempi di narrativa in lingua ladina cadorina di alta qualità. Dalle mani dello stesso pittore-autore-traduttore, nel 2002 esce Pinochio ladin. Storia d un pupo d logn voltada par comelion (Edizioni Gruppo Musicale di Costalta, Grafica Sanvitese), basata sull’illustre racconto Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Sulla stessa scia nel 1992 Aristide Bonifacio traduce dall’italiano la favola di Luciana Costa, Cie ke le barkonele le ten skuz, il primo libro scritto e stampato nel ladino di Selva di Cadore. Un anno dopo Sergio Monico de i Loc, pure lui di Selva di Cadore, traduce un’altra fiaba della Costa, La baréta de kel tosàt forést. Quest’opera contiene un’ottima introduzione, “Quale ‘lingua’ usare?”, che illumina le varie sfide e difficoltà inerenti all’arte del tradurre. “Travasare” da una lingua a un’altra le opere scritte che più hanno influenzato un lettore-traduttore significa anche rompere barriere, scavalcare confini storici-linguistici-culturali, per condividere invece di isolare; per aprire gli occhi verso altri orizzonti.
Cosi gli abitanti delle vallate ladine ricevono ispirazione per scrivere le loro fiabe, filastrocche, racconti. Libretto esemplare di questo è Pin Pun Taratapita. Conte e filastrocche de na ota par contale al dì de ncuoi, cioè racconti d filastrocche di una volta per raccontarle al giorno d’oggi, stampate nel 2003 con il patrocinio della Union Ladina del Cadore de Medo. Si uniscono a loro, per ampliare la narrativa ladina, le Storie nuove e vece. Una favola, due fiabe e una fila-strocca, di Lina De Donà Fabbro, scritte nel ladino di Lorenzago di Cadore. Senza mettere in discussione il loro valore artistico, queste opere sicuramente hanno aperto la strada ad altri autori (odierni e da venire) impegnati a far crescere la letteratura ladina e portarla a livelli più alti, oltre che ad aprire uno scambio sempre più ampio, fino a livelli internazionali. Si può dire che siano varianti di quest’opera gli scritti di natura religiosa, come le Oražion, inni di fede e di esistenza, stampate nel 2000 con il sussidio di tre Unioni Ladine, oppure la Mosa Ladina (Messa ladina) realizzata nel 2003 dal Gruppo Musicale di Costalta. Appoggiandosi alla vena religiosa, anche queste ultime seguono il precedente Sette-Ottocentesco. E fin dall’inizio il binomio chiesa-famiglia sta alla base di tante opere scritte nel territorio ladino bellunese.
Apparentemente irrisolta rimane la storica “Questione della lingua”. Perché scrivere usando una “lingua di confine” invece della lingua “nazionale” adottata come mezzo ufficiale di comunicazione? Alberto Asor Rosa propone una risposta interessante: “La spinta a utilizzare il dialetto è originata dalla necessità di fornire un veicolo espressivo all’esperienza autobiografica: lingua nativa e soggettivismo lirico si saldano nel discorso poetico dialettale. Sul piano più strettamente linguistico, i poeti [e gli altri scrittori] vernacolari individuano nel dialetto – soprattutto nel suo patrimonio lessicale – una lingua poetica non deteriorata dagli usi comunicativi.”10 Così le lingue di confine e la lingua nazionale creano sinergie invece di essere in perpetuo con-flitto: le prime servono anche a rinnovare quell’italiano tuttora forse troppo banalizzato dagli abusi della burocrazia e dei mass media. Afferma Mario Brevini, “la neo-dialettalità sarebbe, pertanto, un tentativo di riacquisto di una porzione di realtà di fronte alla minaccia globale di una sua perdita totale e di una esautorazione della coscienza.”11
Sotto tale prospettiva analizziamo ora alcune delle più rappresen-tative opere di narrativa ladina bellunese. Il Quadro della letteratura ladina d’Ampezzo, (Collana di lingua e tradizioni culturali, “Union de i Ladis d’Ampezo U. L. d’A.”, Tipografia Ghedina, 1995) è una vera e propria antologia; include poesie, storie, racconti biografici e un dramma in quattro atti. I primi due racconti, di Bruno Apollonio Nèrt (1864-1932) sono El sóen caaliér de Brack (Il giovane cavaliere di Brack) e Ra grotes de Volpena (Le grotte di Volpena); ambedue sono favole ma con sfumature di storia locale. San Nicolò de ‘na ota e de ‘l dì d’ancuoi (San Nicolò d’una volta e d’oggi), di Teresa Michielli Pelèle (1922), racconto religioso-didattico, stabilisce uno dei topoi centrali della letteratura ladina dolomitica: nostalgia del passato. Nelle parole dell’autrice: “Si vorrebbe che tutto il mondo potesse contare su tali cose e trascorresse giorni di pace e di bellezza con le usanze d’un tempo lontano” (p. 109). Elisabetta Menardi Diornista (1947), pure lei cortinese, privilegia una narrativa di memorie di luoghi e paesaggi specifici come in Ra lùmes de Cortina (Le luci di Cortina) e Sora pònte (Sul ponte che porta al fienile), pubblicati nel 1988, mentre Ra difesa (La difesa) è del 1990). Ernesto Magoni Coleto (1958) offre un racconto di sapore storico-escursionistico, Drio ra zapores de Sepp Innerkofler (“Sulle orme di Sepp Innerkofler”, guida alpina che aprì numerose e difficili vie in tutte le Dolomiti)).12 Dello stesso autore A ‘l soroio (Al sole), del 1988, è una meditazione leopardiana che incomincia: “Disteso al calore del sole di giugno sulla cima della Torre, ammiro beato l’azzurro del cielo che ho intorno” poi allarga il volo in altre direzioni… “e nella mia testa corrono, s’incro-ciano e saltellano mille pensieri, ricordi e giornate ed ore trascorse, che tornano con il piacere di averle vissute bene.” E prosegue, “saranno quasi dieci anni che salgo qui ogni estate, sempre con l’intenzione di incontrare un’amica, ed ogni volta c’e qualcosa di me, che credevo di aver smarrito…” (p.143). D’altro canto Cortina, na vila senza odore, pure del 1988, è un reportage alquanto ironico che va ben oltre il giornalismo di cronaca, mentre Guergno (Maltempo) crea una sottile atmosfera psicologica che stupisce. In fine Tata Mariole (Zia Marietta) è l’inno all’adorata zia che incarna i migliori valori dei tempi di una volta: “Alta, dritta, vestita di nero, se ne va qua e là, quasi come chi sparge l’erba falciata. Con la forca ed il rastrello, prepara la paglia per l’inverno, per il bestiame. Vicino alla staccionata, vedo anche Berto, suo figlio, che va a far legna nel bosco” (p.150). Rivivendo il passato attraverso gli occhi di zia Marietta, l’autore e anche noi assaporiamo il presente con più intensità che forse ci prepara meglio per il futuro.
Per Marco Dibona Moro (1961) l’incomparabile paesaggio di Cortina d’Ampezzo fa da sfondo ai suoi racconti come in Ampezo d’outon (Autunno in Ampezzo), dove barlumi di attualità locali, di memorie storico-affettive s’intrecciano, nella narrativa di questo giovane au-tore, con sprazzi di una natura selvaggia di montagna che lo incantano e quasi lo stordiscono: “Già le prime cime han cominciato ad imbiancarsi; la sera quando si passeggia, è meglio indossare un maglione; si vede sempre meno gente in piazza: possiamo proprio dire che l’estate, anche per quest’anno è finita. Se n’è andata recando con sé , tutto quello che porta ogni anno in luglio e subito dopo: rumore, auto, personaggi importanti con i loro libri, ‘camper’ che stazionano dapper-tutto e che sporcano le strade. Ad essere sinceri dobbiamo dir anche che l’estate ci porta tanta gente, tanti bei soldi che ci fanno vivere e bene, fino alla prossima stagione. Adesso abbiamo un po’ di tempo per goderci questa nostra valle.” Questa ben riuscita ma spietata vivisezione psicologica di luoghi e di persone termina con queste parole: “Ampezzo d’autunno: ti voglio bene” – una toccante dichiarazione d’amore (p. 156). L’altra sua storia, che porta il titolo di Sì bošco d’outon (Far legna d’autunno nel bosco), contrasta il passato con il presente: “Quella della legna, dell’assegnazione13, dev’essere stata una delle poche cose restate com’erano una volta, per i nostri vecchi. Qualcosa è mutato, di certo, dato che oggi si usa la sega a motore e non la grande sega a mano; il trattore e non il carro, ma l’odore della resina e il muschio del bosco umido son restati quelli di un tempo”. La storia lascia un sapore agro-dolce in bocca del lettore che condivide i flashback narrativi: “Ciò che proprio mi dispiace è veder così spesso dissipare la legna e trovare per terra tronchi, cimali, rami e, talvolta, persino tronchi scortecciati, scordati o lasciati là perché troppo lontani dalla strada. Probabilmente il gasolio ed il ‘Kerosene’ non sono ancor cari abbastanza…” (p. 159).
Lo stesso si potrebbe dire del disprezzo troppo spesso mostrato dai giovani e non tanto giovani verso la lingua madre, il ladino, che ha dato loro le radici storico-esistenziali per sopportare le bufere scate-nate dal linguaggio e dalla cultura postmoderna.
Il racconto che chiude questa antologia è di Laura Gaspari Moròta (1963). S’intitola Me vardo intorno (Mi guardo intorno) e inizia con questa semplice, indimenticabile scena: “D’autunno, più che mai, mi piace indossare un buon maglione caldo, aprire la porta ed uscire nel bosco.” Prosegue: “Mi piace vedere che la natura sa più di noi, che fa ciò che deve senza bisogno che qualcuno le suggerisca come.” Sembra una parabola piena di immagini, di barlumi, di intuizioni che James Joyce definiva “epifanie”. L’autrice poi prega: “Qualche volta, anzi spesso, sarebbe meglio essere come bambini: curiosi, allegri, senza malizia e pieni di stupore verso il mondo intero… Le foglie, quelle che ormai si sono rassegnate a cadere giù, a dispetto della morte, ormai vicina, sono tinte di colore che infonde allegria e ris-calda i poveri alberi quasi spogli: giallo, rosso cupo, rame, marron-cino… pennellate ben date, sullo sfondo di un cielo così azzurro, che se lo odorassi, avrebbe l’odore della pittura fresca” (p. 166). Questo quadro dipinto con parole della Gaspari Moròta è paragonabile a quello di Joyce nei Dubliners (Gente di Dublino), titolato “Snow” (Neve); è di una incisività strabiliante, una beltà indescrivibile, una profondità insondabile; un racconto che s’incolla sulla memoria con un virtuosismo che ci spinge a rileggerlo ancora e ancora.
È vero che le tematiche della narrativa ladino-bellunese rimangono quelle classiche, tradizionali: natura, famiglia, il passato. In alcuni aspetti ci fa ricordare i Cento anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez anche se usano un linguaggio e uno stile conservatore e non sperimentale, in contrasto con il realismo magico marquezano. Non si sono ancora aperte a temi post-moderni che privilegiano erotismo e violenza, spesso adottando il linguaggio della neo-avan-guardia. In difesa del passato come tema, l’illustre autore canadese Michael Ondaatje ammonisce: “Se non attingi a piene mani dal passato, l’assenza ti consuma”.14 Senza discutere i pregi e difetti dello stile classico verso lo stile moderno, indubbiamente la narrativa odierna non può fare a meno della memoria come fonte d’ispirazione. La sua assenza lascia un buco nero incolmabile e neanche lo scrittore di fantascienza è capace di proiettarsi nel futuro senza conoscere il passato.
Portiamo avanti questa inchiesta con i testi alquanto ibridi di Négro su ‘l bianco (par nó se desmenteà), dell’autore Piero De Ghetto, oriundo dell’Oltrechiusa cadorina. Nell’introduzione, il dialettologo Enzo Croatto scrive: “Ci accade spesso di leggere poesie e prose scritte in vari dialetti del nostro variopinto Nord-est e altrettanto spesso ci accade di essere delusi. La ragione è che purtroppo si scrive spesso in dialetto ciò che si è pensato o peggio scritto in italiano, con evidente mancanza di spontaneità e semplicità, caratteristiche queste essenziali alla parlata popolare. Per nostra fortuna non è questo il caso dei raccontini di Négro su ‘l bianco, perché Piero De Ghetto scrive davvero come parla.” I racconti di questo autore sono “fram-menti del passato, ricordi d’infanzia e gioventù, vissuti tuttavia con occhi nostalgici e affettuosi.” Continua Croatto: “Qui non ci sono eroi e fatti memorabili, ma piuttosto una galleria di volti cari e noti legati da piccole vicende famigliari e paesane, spesso pervase da umorismo ingenuo ed elementare, ma ricche di verità e saggezza.”15 Infatti l’umorismo è l’elemento più originale e significativo di questa raccolta anche se la nostalgia del passato sia diventata un leitmotiv forse troppo logorato dall’uso eccessivo nella narrativa ladina. Fra i raccontini più memorabili: “Al sfrandìgol”, “I dói cogói de fén”, “Al colonèl de la légnes” e “Màlgia de Molin” e la tragica realtà dell’emi-grazione riceve particolare attenzione.
In Nadàl e altri componimenti, di Luigi Nicolai, nato nel 1918 a Selva di Cadore, si trova un unico racconto “La Befana de Spižakorf”, cir-condato da poesie; indimenticabile la conclusione di questa fiaba.16 Dalla valle di Fodom viene una bellissima raccolta di testi accompa-gnate da memorabili fotografie d’epoca: Tosat da nnier. 240 ricordi a ciaval dei agn 1940-60, (Ragazzo di ieri, 240 ricordi a cavallo degli anni 1940-60) di Sergio Masarei. Dall’introduzione dell’autore: “Parole davàntfòra”, “Savei coche nase le ròbe: cánche se se mët de duta oga nte cèze n sauta fòra de auter e de auter ncora” (p. 5). Le cose nascono quando ci si mette tutta la volontà, ben dimostrata dal Masariei in questo libro di 398 pagine. E non sono soltanto ricordi, come dice il titolo, bensì un meticoloso compendio di “flashes” e di elzeviri: di personaggi d’una volta, di leggende e tradizioni: di rifles-sioni e perplessità suggerite dai paesani, dai “foreste” e dal paes-aggio.17 In contrasto con tanti altri libri in ladino, questo libro non ha l’italiano come testo a fronte perciò la lettura è più impegnativa; però non sacrifica la chiara bellezza musicale che è l’anima e cuore della lingua fodomese. Aprendo a caso questo libro gli occhi cadono sulla storia umoristica “La sfëssa ntle la sié”, su “Cugniscënze sessuai” oppure su “Bugánze”. Ogni pagina è una sorpresa che ci lascia stupiti e anche con un po’ di invidia per la bravura dell’autore. Verso la fine della raccolta si scoprono incantevoli riflessioni sulla natura e l’uomo, vedi per esempio “A edelbais”, “Precipizi” e “La poura dei bric sot a le crëpe”). Il libro è una fonte inesauribile di sentimenti, saggezza, humor e memorie che ci segnano per sempre.
Il libro dello zoldanese Angelo Santin Strafit (medico, scrittore, giornalista, poeta e traduttore), An libre par i Žoldàign. Stòrie, storièle e poesie par dialèto, (“Un libro per i Zoldani. Storie, storielle e poesie”, Tipografia Piave da Belùm. 2006), rispecchia in vari aspetti l’opera del Massariei, ma il suo formato antologico lo rende diverso. Oltre ai testi dell’autore, l’antologia raccoglie i testi di altri poeti e scrittori locali, “vergati in uno zoldano schietto, autentico e vivace. C’è in queste pagine un sapiente equilibrio linguistico tra antico e moderno, che rende la lettura godibilissima e divertente anche per gli Zoldani delle nuove generazioni… . È un caleidoscopio di immagini affettuose, di ricordi familiari, di macchiette e personaggi originali, di eventi lieti e tristi, di paesaggi alpestri, di ironie paesane e prediche bonarie, di impressioni di viaggio. Colpisce e affascina l’infinita varietà di soggetti e situazioni contenute nel volume. Tutta la Valle [di Zoldo] si rispecchia in queste pagine attraverso tanti personaggi magistralmente tratteggiati” (dalla “Presentazione” di Enzo Croatto). Santin Strafit, oltre che autore è anche un geniale traduttore: ha “zoldanizzato” autori classici come Ovidio, Catullo, Fedro, Cesare, Esopo, come pure alcuni testi del cantautore bolognese Guccini, che è stato un grande amore giovanile dell’autore. Difficile e superfluo aggiungere i miei commenti. Desidero soltanto concludere la sezione con una riflessione del professor Croatto, “questo libro a me pare un breviario di cultura zoldana, scritto con amore e sensibilità, e mi auguro che ri-manga a lungo come modello per riflessioni e futuri studi su questa Valle e sui suoi uomini” (p. 16).

Teatro

Nell’evoluzione storica della letteratura, dopo la poesia si sviluppa il teatro, seguito dal romanzo ma, nella Ladinia bellunese, il teatro arriva dopo la narrativa. Di Anpézo e el so teatro. Cronache Cortinesi tra finzione e realtà, a cura di Raffaella Dadié, (Tipografia Ghedina, Cortina, 1995), scrive Ernesto Majoni, allora presidente dell’U.L..d’A., nella Presentazione: “Nel 1987 abbiamo salutato con piacere il ritorno sulle scene della Filodrammatica Ampezzo, dopo oltre vent’anni di silenzio… . Questo libro, Anpézo e el so teatro, esce proprio nel momento giusto, per ricordare… i valori del teatro ampezzano, che si rappresentava già un secolo fa nella vecchia latteria di Piazza Pontejel, e per insegnare ai più giovani ad apprezzare una tradizione del nostro paese che esiste ancora, e che non vogliamo perdere: far rivivere sulle scene, per un paio d’ore soltanto, fatti e personaggi di epoche che non tornano più” (p.4). Anche se rivolti al recupero del passato, sono testi teatrali di indubbia importanza e sostanza (per esempio “Zuane Da Ladel, in-ventor del sciopo a vento”, “El conte da Ciampo”, “Zento ane de vita ampezana”, “Ra cros del Grisc”) che serviranno da guida e da ponte per le susseguenti opere scritte e rappresentate in ladino bellunese. È un teatro che segue le orme classiche del Sette-Ottocento, non quelle pirandelliane oppure quelle postmoderne di Samuel Beckett, tuttavia si inserisce nelle vallate ladine per dar voce a certe esigenze storico-culturali non facilmente realizzabili attraverso la poesia e la narrativa.
Prima fra i drammaturghi ampezzani è la Eligia Ghedina Demenego Tomàš, seguita da Gaetano Ghedina Tomàš, Giuseppe Ghedina Crépo, Fiorenzo Pompanin Dimai de Anjèlico e Arcangelo Dandrea Magro. Complessivamente si contano nove componimenti: tre della Gheidina, uno di Gaetano Ghedina, uno di Giuseppe Chedina, uno del Demai e tre del Dandrea. Essi riflettono la diversa personalità degli autori e sono accumunati da elementi reali in riferimento a fatti di cronaca, di qualche personaggio noto a livello locale, o da qualche avvenimento di rilievo.18 Venezia e il suo teatro è stata la principale influenza per gli autori teatrali di Cortina. “La lunga appartenenza della cittadina a Venezia ne ha influenzato le caratteristiche culturali molto di più di quanto abbia potuto, a tal fine, la corte di Vienna, ritenuta un luogo estremamente importante e tale da essere rispet-tato, ma sconosciuto”19 Lo stesso vale per l’influenza linguistica: i cortinesi hanno sempre parlato l’italiano e il loro dialetto ha subito numerose influenze provenienti dall’area veneta; il tedesco, per quanto conosciuto, non ha mai assunto lo stesso rilievo (p. 15).
Tra le opere teatrali scritte da altri autori ladini bellunesi ricordiamo Un fraal inpizò (Un lume acceso), a cura di Patrizia Eicher Clere, che li definisce “testi teatrali in ladino del Comelico”. Sono tre racconti, “Storia d Gianni minador”, “Piero, al danó dal Peralba” e “Albino e l’Aluvion”, in forma drammatica, che quindici studenti (appartenenti alla III-A della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo di Santo Stefano di Cadore) hanno realizzato come progetto legato alla valorizzazione della lingua minoritaria, voluto dalla legge 482/99. Questi ragazzi sostenuti dall’amore per la parlata ladina, hanno reso “semplice, in classe, passare da un registro lingu-istico all’altro, mutando non solo le parole ma anche la struttura sintattica, fondamentale per far capire che è necessario operare mentalmente una traduzione immediata, transitando da una lingua ad un’altra, per non commettere errori, sempre possibili in una zona di effettiva diglossia.”20
Realizzati nel triennio 2004-6, questi testi teatrali in ladino con l’italiano a fronte chiaramente dimostrano, nelle parole di Patrizia Eicher Clere (bravissima pilota del progetto) “che il ladino non è una lingua da riserva indiana, ma un idioma vivo, in evoluzione, che trasmette parole arcaiche, legate alla civiltà rurale, ma che accoglie modernismi e neologismi, legati alla civiltà industriale e tecnologica”21. Dimostrano chiarissimamente come sia possibile scrivere opere teatrali moderne usando un linguaggio che sposa arcaismi dialettali quasi dimenticati a neologismi di ultima generazione, con una sintassi chiaramente distinta ma che allo stesso tempo crea inattese sinergie per unire invece di isolare. Una limpida, appassionata “considerazione” di Lucio Eicher Clere rias-sume il passato ed invita a un futuro teatrale ladino più ampio e rigoglioso: “E pasön dal carì su e böte par scrito la parlata dei veces, nascuance iné stade bogn da scrive algo d original par ladin dal Comelgo: poesia, prosa, teatro. Ne n è ncamò na grön produzion, come ch iné carsuda zun secul zle valade di Badia, Gardöna e Fassa, ma chi nascuance ch à scrito e publicó par ladin dal Comelgo, inà tacó a verde na strada che etre podaraa continué e slargé.”22 Ridondante dire che il futuro del teatro in particolare, e della lingua ladina bellunese in toto, è nelle mani dei giovani e della futura generazione.23
Dal 1995 l’impegno appassionato dell’autrice-regista Claudia de Mario, fondatrice del gruppo teatrale “La fontana conta”, ha offerto agli appassionati cultori del ladino cadorino una squisita varietà di spettacoli: “Tanto che se spieta Nadal” (1996), “E quasi Nadal, e rua chi da fora” (1997), “Davante al tabià laoro e ciacole de na nostra dente” (1998), “Ogni scusa é bona par ciatase a l’ostaria” (1999), “Sane, sane vado in America” (2001), “La Redosola” (2002), “La Redosola del dì de ncuoi” (2004), “Ienela ncora la befana?” (2005), ed “Ei visto le strie” (2007). È teatro amatoriale; vive completamente di volontariato, questo lavoro certosino della De Mario, che vuole recuperare leggende, storie, personaggi e vicende locali usando un vernacolo schietto, semplice, efficace. Coinvolge giovani attori per tramandare una cultura che altrimenti va annientata dalle invasioni linguistiche del pianeta. Propone una diglossia al posto del globalismo, anche per non dimenticare, per non perdere le radici millenarie sulle quali si è basata la cultura e identità ladina bellunese.
Una variante del teatro classico sono i testi musicati dal Gruppo Musicale di Costalta, sotto la direzione di Lucio Eicher Clere. Più imparentati all’operetta e ai musical24, ricreano il passato (Catu-brium), personaggi illustri (Tiziano), esperienze locali (Foresto) con musica e testi in ladino. Sono opere originali che aprono nuovi orizzonti linguistici e artistici; con la loro modernità attraggono i giovani che si sentono più consoni all’odierna realtà ladina invece di trovarsi controvoglia trascinati dentro un malinconico, esaltato passato che spesso non condividono. Foresto – Testi di Lucio Eicher Clere, Musiche di Daniele De Bettin, Regia di Claudio Michelazzi – introduce la protagonista Rina che, presa dai racconti di Jaco (emi-grante in Francia durante gli anni 60, tempo di agitazioni studen-tesche per un mondo più giusto e più umano, che culminarono con gli scontri della primavera parigina del 1968), lascia a diciotto anni il paese di montagna per seguire Jaco. È l’estate dei primi anni settanta e i due si uniscono a ondate di giovani a vagabondare per l’Europa in autostop. Vita in comune, confronto di lingue e culture, tolleranza e rispetto, ma anche disagio e fatica della quotidianità nomade. E poi l’incontro con le droghe, esaltazione e svuotamento.”25
È un’esperienza di migrazione radicalmente lontana da quella fatta da migliaia di ladini partiti in miseria dai vari paesi dell’alto bellunese, alla fine dell’ottocento e dei primi anni del novecento, in cerca di lavoro nelle Americhe, nei paesi più industrializzati d’Europa come pure in Australia . Ritornata in paese, Rina si scontra con la deter-minata chiusura della famiglia e dei paesani. Senza casa e lavoro e accorgendosi di essere rimasta incinta, rintraccia Jaco per con-vincerlo a ritornare. Lui non si fa vivo neanche quando nasce la figlia, Daniela ma riappare due anni dopo, quando la piccola ha due anni, promettendo di cambiare. Pur provando una stretta al cuore, Rina lo congeda con poche parole: “ho imparato a vivere senza di te.” La trama segue le vicissitudini di Daniela che s’innamora del marocchino Sahid seguendolo a Casablanca. Sembra una tragedia greca, dove i peccati dei genitori cadono sulle spalle dei figli, ma con apparente lieto fine: “Laggiù in Marocco, di fronte all’oceano Atlantico, Daniela e Sahid, nonostante gli scetticismi ed i malauguri, continuano a dimos-trare che è possibile l’amore e la convivenza tra culture e religioni diverse.”26 Al giorno d’oggi i flussi migratori sono multi-direzionali: stranieri che arrivano anche nella Ladinia dolomitica e ladini che emigrano nelle città e nei paesi di tutto il mondo. Questa la realtà odierna che, a mio parere, troverà risposte positive solo in una convivenza paritaria e non in uno schizofrenico isolazionismo/ protezionismo. Qualcuno ha scritto che “l’arte libera e la politica corrompe”. Auguro che i giovani ladini bellunesi si dimostrino bravi artisti per poter diventare anche politici onesti (solo se desiderano fare anche quel mestiere).
Il romanzo rimane una lacuna da colmare nella letteratura ladina bellunese27. Per vari motivi questa forma di espressione non si è ancora sviluppata nelle nostre vallate, mentre nella val Gardena autori hanno realizzato alcuni romanzi, come L Nost (1988) di Frida Piazza e Vijins (1992) di Angel Morlang. Si spera che il loro esempio venga colto da giovani autori della Ladinia bellunese, seguendo l’auspicio enunciato da Walter Belardi in “Prospettive future”: “La più recente letteratura ladina – nella quale non sono mancati nell’ultimo decennio i soliti e forse troppo abusati sperimentalismi formali e contenutistici d’avanguardia che circolano per altro in ogni parte del mondo…– sembra entrare adesso con le produzioni attuali in una stagione di ‘poetiche’ e di opere letterarie che, senza perdere di vista il mezzo espressivo tradizionale ma anzi esaltandolo e potenziandolo per nuove avventure, si aprono a tematiche e a visioni del mondo che, pur nella loro originalità, sempre meno risentono dei condizionamenti di una tradizione troppo locale e conservativa.” 28 Questo è l’auspicio rivolto anche alle future generazioni di autori ladini bellunesi.

Prima stesura: dicembre 2007
Seconda stesura: marzo 2008
File: Adeo--La letteratura ladina delle dolomiti [2]
UN INVITO AI LETTORI: Questo saggio è un work-in-progress, senza nessuna pretesa di completezza e/o finalità. Perciò invito scrittori e lettori ad accennarmi altri autori, sia storici che contemporanei, che per mia carenza sono stati omessi, come pure errori miei involontariamente commessi. Vi invito a spedire i vostri commenti, raccomandazioni e/o materiale a:
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tel. fisso: 049-615-386
telefonino: 340-851-0868
oppure a: prof. A. Piazza Nicolai
via Adige, 9 35135 Padova

BIBLIOGRAFIA: LA LETTERATURA LADINA DELLE DOLOMITI BELLUNESI

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Breve storia della lingua e della letteratura ladina, Walter Belardi, (2° edizione aggiornata , con una appendice curata da Marco Forni), Istitut Ladin “Micurà de Ru”, 2003.
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Un fraal inpizò. Testi teatrali in ladino del Comelico, a cura di Patrizia Eicher Clere, Grafica Sanvitese, 2006.

1 Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XI, p. 221, 1969.

2 Vedi Mia Lecomte, Ai confine del verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere, Firenze, 2006) per la definizione di letteratura “italofona”.

3 Alcuni titoli: Poesia dialettale del Novecento, a cura di P. P. Pasolini e Marco Dell’Arco ( 1952), Le parole di legno. Antologia della poesia in dialetto del Novecento, a cura di Mario Chiesa e Giovanni Tesio (Mondatori, 1984); antrologie d’oltremare: Dialect Poetry of Northern & Central Italy (Legas editore, New York, 2001), Via Terra. An Anthology of Contemporary Italian Dialect Poetry, a cura di Achille Serrao, Luigi Bonaffini e Justin Vitello (Legas, 2000), La Flor. Letteratura ladina del Friuli, due volumi a cura di Dino Virgili, (Udine, Società Filologica Friulana, 1978).

4 Sono particolarmente dedicate ai dialettali le pagine lxx-lxxv dell’Introduzione che Mengaldo antepone alla sua antologia, Poeti italiani del novecento (Mondatori, 1978), dove scrive: “In comune, però, i poeti neodialettali avrebbero la consapevolezza di un’alterità linguistica, di un volontario distanziamento dal codice comune (l’italiano) che acquista tanto più valore e significato storico-letterario quanto più avvenga in articolo mortis – scrive Mengaldo – ovvero nel momento in cui sembra che il processo di omologazione avviato dall’Unita d’Italia sia giunto all’annientamento delle differenze territoriali e all’omologazione del messaggio letterario.”

5 Antologia Dialettale della provincia di Belluno dalle origini ai nostri tempi, Circolo Dialettale "Al Zempedon", Con note introduttive di dialettologia a cura del prof. don Sergio Sacco, Tipografia Piave, Belluno, 1975.

6Adeodato Piazza Nicolai, “La lingua della poesia ladina delle Dolomiti Bellunesi”, Ladini oggi, a cura di AA.VV., Tipografia Ghedina, Cortina d’Ampezzo, 2005.

7La Flôr. Letteratura ladina del Friuli, a cura di Dino Virgili, Udine, Società Filologica Friulana, volume 1, pp. 92-263, 1978.

8Breve storia della lingua e della letteratura ladina, Walter Belardi, (2° edizione aggiornata , con una appendice curata da Marco Forni), Istitut Ladin “Micurà de Ru”, pp. 75-87, 2003.

9Breve storia della lingua e della letteratura ladina, Walter Belardi, (2° edizione aggiornata , con una appendice curata da Marco Forni), Istitut Ladin “Micurà de Ru”, pp. 73-4, 2003.

10 Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, La Biblioteca di Repubblica-l’Espresso, Giulio Einaudi Editore, Volume 10, p. 69, 2007.

11 Vedi Daniele Maria Pegorari, “La neo-dialettalità nella storiografia letteraria”.

12Ecco un assaggio da questo racconto; ovviamente stupisce la musicalità e freschezza se letto nell’originale ladino: “Ritornando dal Paterno, se n’era andato via subito quel sapore di pace, di bellezza e di armonia, che avevo assaporato su quelle rocce e mi dispiacque pensando a Sepp, che se fosse stato là con me, sarebbe di certo fuggito nel vedere la ‘sua’ croda ridotta peggio del più sporco parco giochi per bambini di una grande città di pianura…”

13 Propriamente assegnazione del fabbisogno di legna ovvero diritto di legnatica che tutti i paesani ottenevano dal comune, seguendo normative stabilite dalle antiche Regole già nel Trecento.

14 Vedi il romanzo Divisadero, Garzanti Editore, p. 147, 2008.

15 Négro su ‘l bianco, p. 3.

16 Ogni mattina, quando comincia ad albeggiare, uscirai e se vedi come una culla di stelle venirti vicino, portata da due angeli come me, fa attenzione, perché dentro ci sarà un regalo da portare a qualche abitante della vallata: a chi, vedrai tu.” (p. 41)

17 Sempre dall’introduzione: “Podësse ence ester che nò dut chel che l é scrit l siebe verité sacrosànta…, dato che l recordé l é dagnëra recordé dai ogli de na persona sola (nte chëst cajo de mi e tosat perdeplù), che non n é par nia dit che l passeneie con chël de deautri o con chëla che dal vero l’eva la dërta dërta verité suzeduda” (p. 5). Quasi una giustificazione per scrivere una particolarissima sua realtà magica, simile al metodo usato da Marquez.

18 Anpézo e el so teatro. Cronache Cortinesi tra finzione e realtà, Tipografia Ghedina, Cortina, 1995, p. 14.

19 Ibid., p. 15.

20 Patrizia Eicher Clere, “Introduzione”, Un fraal inpizò, pp.5-6.

21 Ibid., p. 6.

22 Ibid., p. 3.

23 Ibid., p. 6 “Perché è inutile nascondersi dietro un dito: la lingua ladina sta arrancando anche in Complico, sopraffatta dall’italiano, nella convinzione errata che le due lingue non possano convivere. E invece… esse devono convivere. Perché solo una convivenza paritaria è arricchente.”

24 Simili ai musicals statunitensi, come West Side Story, Hair, Grease, Cabaret o dell’inglese Andrew Lloyd Webber, come Jesus Christ Superstar, Cats, The Phantom of the Opera. I temi ovviamente sono consoni alle realtà storico-geografiche ladine.

25 Foresto, p. 7.

26 Ibid., p. 28.

27 Mancanza simile a quella dei Sorbi di Lusazia, come scrive Claudio Magris; “Manca ancora un dramma moderno la dialettica tra complesso d’inferiorità e di autoaffermazione è ancora insistita, folklore e tradizionalismo sono spesso ingombranti;” L’infinito viaggiare, Oscar Mondadori, 2005. p. 92.

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