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letteratura dell'esilio nella cultura contemporanea

serena guarini

Introduzione

Il tema dell'esilio è presente in tutta la storia della letteratura e dell'intera produzione artistica mondiale. Si potrebbe affermare addirittura che la cultura occidentale sia in gran parte frutto del lavoro di esuli e di espatriati 1, soprattutto dopo i drammatici eventi che hanno caratterizzato il XX secolo, dalle guerre mondiali all'avvento delle dittature. È come se esistesse un rapporto privilegiato tra intellettuale esiliato e produzione culturale: per gli immigrati o gli espatriati l'esilio rappresenta la fuga da un regime nemico o un ambiente ostile e si fa, attraverso la letteratura, testimonianza attiva.
Appare chiaro, dunque, che sviscerare completamente il tema sarebbe praticamente e concretamente impossibile, data la sua lunga storia e le diverse sfumature che può assumere. Ho deciso allora di focalizzarmi su alcuni punti che ritengo essenziali per affrontarlo in maniera variegata, attraverso l'esame di alcune esperienze intellettuali che hanno vissuto e rappresentato l'esilio da diversi punti di vista.
Innanzitutto, mi è sembrato fondamentale il riferimento ad Edward Said, “intellettuale sempre nel posto sbagliato2”, figlio di diverse culture, di diverse lingue e religioni, che fa dell'esilio la condizione essenziale per la nascita di una “coscienza critica”3. Per Said, gli obiettivi della letteratura dell'esilio coincidono con l'interesse rivolto alle masse anonime di sfollati. Nei suoi scritti, troviamo riferimenti a vite reali, a biografie di intellettuali che hanno dovuto abbandonare il proprio Paese a causa delle persecuzioni attuate dai regimi totalitari4.

In una diversa accezione si può considerare l'esilio vissuto da Luigi Meneghello, partigiano che vive la Resistenza in Italia, ma che decide di lasciare volontariamente un Paese che ritiene vuoto, “vecchio”, rappresentazione di una civiltà retorica di cui non riesce a condividere lo “sguardo”5 condizionato dal regime fascista. Il dispatrio gioca un ruolo fondamentale in tutta la sua esperienza e carriera letteraria: attraverso un processo continuo di identificazione e disidentificazione, si aprono sempre nuove prospettive, anche a livello linguistico. L'esperienza del dispatrio allora non si traduce in una cultura che ne sostituisce un'altra, ma nella creazione di qualcosa di completamente nuovo6.
Infine, nell'ultimo capitolo, ho fatto riferimento a un fenomeno contemporaneo che è il risultato delle ondate di migrazione a partire dall'ultima metà del secolo scorso in Italia: la produzione letteraria che ne deriva ha dato vita a quella che viene definita “letteratura della migrazione” o “letteratura post- coloniale”. Dopo aver fatto un breve excursus storico del fenomeno, ho analizzato due casi concreti di autori che hanno raccontato il proprio “esilio” in lingua italiana: Igiaba Scego, nata a Roma da famiglia somala, e Hamid Ziarati, giunto in Italia dall'Iran all'età di quindici anni. Attraverso un'intervista con Ziarati, ho potuto raccogliere la testimonianza di un Iran che oggi tenta di raccontarsi grazie al lavoro degli intellettuali che operano a vari livelli, nella maggioranza dei casi espatriati.
La condizione di esilio racchiude in sé dunque diverse possibilità di manifestazione e di espressione. In tutti i casi, l'esiliato è un outsider, ciò significa che non solo può essere incluso in questa categoria chiunque viva in una condizione di marginalità, ma addirittura può essere la rappresentazione di una condizione esistenziale dell'individuo che, in un processo continuo di partecipazione e distacco, riesce ad assumere uno sguardo critico sul mondo che lo circonda.
Ho scelto questo tema perché ritengo che oggi parlare di esilio e di intellettuale esiliato abbia un senso. Basti pensare alla situazione di precariato nella quale versa la categoria dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza” che spesso, agendo dal basso, attraverso delle organizzazioni orizzontali e a rete (come è testimoniato dalle esperienze di Generazione TQ, del Teatro Valle Occupato e de La furia dei Cervelli) cercano di contrastare una situazione drammatica data dalla mancanza di fondi e di spazi pubblici condivisi destinati alla cultura.

Capitolo Primo

L’esilio nella storia della letteratura

1.1. Il tema dell’esilio in letteratura

Allontanamento dalla Patria, ma anche solitudine e abbandono: questo il significato di Esilio, dal latino exilium (ex+solum, “fuori dal territorio”). È opportuno distinguere tra una letteratura dell’esilio che si riferisce alle opere che possono riguardare o meno il tema, scritte da un determinato gruppo di esuli in un determinato periodo storico, e una letteratura sull’esilio, reale o metaforico, che può implicare o meno un contesto autobiografico7.
Se il filone biblico suggerisce una valenza sacra del tema, introducendo alcuni importanti topoi narrativi e la cultura greca propone un modello positivo ed eroico di esule politico, è soprattutto nella civiltà latina che si costituiscono dei modelli letterari e filosofici paradigmatici, sui quali si fonda gran parte della fortuna successiva del tema: in Catullo, in Orazio, nell'esilio epico avventuroso legato al motivo del viaggio nell'Eneide di Virgilio; nell'esilio concepito da Cicerone e Seneca come esperienza positiva di recupero di una propria dignità intellettuale e incentivo alla riflessione filosofico-morale o da Ovidio all'origine di una poesia intimistica e consolatoria.
In ambito romanzo il tema sfugge a definizioni univoche: si passa dal tema dell'esilio come condizione di sofferenza e infelicità presente nella poesia provenzale e toscana, al motivo dell'esilio con la finalità di esaltazione dei valori cavallereschi del Cantare del mio Cid, all'esilio-avventura delle Chansons de geste8.
In Italia, l’esilio politico diventa motivo letterario con modalità differenti. È Dante, nella Divina Commedia, a conferirgli una funzione sacrale, coniugando la tradizione di origine biblica e classica con la propria vicenda reale di esule politico. La commiserazione e la sofferenza per la condizione di esule sarà presente in vari punti della Divina Commedia che nasce proprio, in particolare dalla terza cantica, come la reazione dell'exul inmeritus che oppone all'ingiustizia della terra l'autentica giustizia del regno ideale, ossia Il Paradiso9. Giuseppe De Marco definisce l'esperienza di esilio di Dante “l’autobiografia universale”. La sua rappresentazione dell'esilio guarda indietro ai precursori biblici e classici, tra cui Adamo, Mosè, Ulisse, Enea, Gesù, Ovidio e Boezio e anticipa, allo stesso tempo, il senso di straniamento di molti altri che verranno, come Foscolo, Hugo, Marx, Joyce, Carlo Levi. L'esilio si configura innanzitutto come amara sofferenza per l'ingiustizia subita e come straziante nostalgia per la lontananza dalla patria; ma nell'iter artistico lo sdegno e il dolore sfuma, fondendosi con la nostalgia e il rimpianto delle anime purgatoriali, in una malinconica accettazione del peregrinare, scevra da ogni speranza nella giustizia umana. La progressiva perdita del dolore culmina con la fine del viaggio ideale (Paradiso, XVII e XXV), dove la condizione dell’esule diventa simbolo universale di un’umanità sradicata dal divino. L’itinerario dell’esilio per Dante ha significato lo sganciamento culturale da Firenze, in un progetto di organizzazione della cultura e della lingua e, insieme, di una poesia universale e di una figura ideale di poeta-profeta10.
Il tema si rintraccia poi in un altro esule fiorentino, Cavalcanti, così come Petrarca che nel Canzoniere più volte paragona la sofferenza per la lontananza dell’amata a un esilio.
Nella società europea dell’Antico Regime, delle guerre di religione e dell’offensiva controriformista, il tema costituisce soprattutto un modo per esprimere il disagio nei confronti di un mondo dominato da rigide e inautentiche regole di comportamento. Joachim Du Bellay, umanista e poeta francese, fondatore del movimento riformatore della lingua francese Brigade de la Pléiade, nei Rimpianti, rimpiange la patria lontana e disprezza la curia romana, la corruzione e la malvagità che dominano l’ambiente ecclesiastico. Il tema dell’esilio come purificazione e distacco da un mondo politico sociale e corrotto è al centro anche del dramma di Shakespeare Come vi pare, in cui la costrizione da parte dei due protagonisti a vivere in campagna, lontano dalla città, li conduce a riscoprire un mondo di purezza e libertà.
Nel settecento, il tema si sviluppa a partire dalla memorialistica (si configura ad esempio nelle autobiografie di Pietro Giannone e di Alfieri), ma non può che assumere una connotazione positiva per la voglia di cambiamento propria di quegli anni, attraverso la sua mitizzazione positiva, soprattutto grazie all’influsso di Jean Jacques Rousseau e degli ideali illuministici. È soprattutto nei suoi scritti privati, come in Confessioni11, che egli attribuisce all’allontanamento del singolo individuo dalla società l'espressione della propria libertà interiore.
In pieno Risorgimento italiano il tema è al centro di alcune opere narrative, come Fantasie e I profughi di Praga di Berchet, in cui viene esaltata la capacità di resistenza da parte di ogni popolo, o come i poemi Il fuoriuscito di Giovanni Scalvini o L’esule di Pietro Giannone, dove viene rappresentata la figura dell'eroe che vendica i soprusi e le ingiustizie in nome di un ideale nazionale e patriottico. La stessa atmosfera si può rintracciare in Fede e bellezza di Tommaseo e in Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Un segno indelebile dei lunghi anni d’esilio (dal 1852 al 1870) si può cogliere poi anche in Victor Hugo, che riflette nei suoi scritti una dissociazione tra esilio reale ed esilio come tema letterario. Soprattutto nei versi delle Contemplazioni esso assume caratteristiche ovidiane, vissuto come un’esperienza intima, distruttiva e traumatizzante.
Nella cultura decadente otto-novecentesca, l’esilio diventa l’emblema di una condizione esistenziale di isolamento e autoemarginazione dalla società. Baudelaire riconduce l’esilio a una condizione esistenziale non contingente: la figura dello straniero è emblematica della condizione moderna; chiunque si sottragga alle costrizioni della società è in fondo un esule, identificato con la struggente figura de Il Cigno12.

[…] là, giusto, io vidi un cigno che, uscito dal pattume
della gabbia e sfregando coi pie' palmati il secco
selciato, strascicava al suol le bianche piume.
Presso un rivo senz’acqua, l’uccello, aprendo il becco,

intridea nella polvere l’ala, nervosamente,
e diceva, sognando il suo lago lontano:
Pioggia, quando precipiti? quando scrosci torrente?
io lo vedo, quel misero, mito fatale e strano,

che verso il siel talvolta, come l’uom di Prometeo,
verso il ciel che splende sereno e derisore,
protende il collo e il becco, bruciato dalla sete,
come se rivolgesse rimproveri al Signore! […]13

Questo sentimento si può rintracciare ancora nei Fleurs du mal nell’albatro-poeta, uccello dalle grandi ali e esule tra gli uomini; ne Le nuove note su Poe, in cui poesia e arte rendono percepibile la nostra condizione di stranieri nello straniero e nel suo amore per le nuvole che si muovono inarrestabili ne lo Spleen di Parigi, e ancora nel dandy di Mon coeur mis à nu e in Povero Belgio14.
Per Rimbaud non si è stranieri solo in patria, ma si è stranieri a se stessi:"io è un altro”15. La Prerogativa dell’intellettuale è la solitudine e l’incomprensione della comunità per il giornalista e romanziere irlandese Banville; mentre Corbiere, ne Il poeta assente si paragona a un eremita che si autoesilia dalla comunità di appartenenza, esattamente come Jim, protagonista di Lord Jim di Conrad che ripropone il tema in questione anche in Nostromo e Sotto gli occhi dell’Occidente. Altra figura non trascurabile è quella di Joyce che tratta il tema sia in Esuli che in Ritratto dell’artista da giovane. Lo sradicamento e l’insofferenza caratterizzano anche il romanzo Viaggio al termine della notte di Celine e i racconti L’esilio e Il Regno di Camus.
L’esilio, lo sradicamento e la solitudine sono temi che, come abbiamo visto, ricorrono nel corso di tutta la letteratura, ma in quella del Novecento assumono una prospettiva inedita, data dall’incomunicabilità16.

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato

(G. Ungaretti, San Martino del Carso, 1916)

Nella poesia San Martino del Carso di Ungaretti, l’immagine di un paese distrutto dalla prima guerra mondiale è paragonato al cuore del poeta, lacerato dalle perdite subìte. La lirica fa parte della raccolta Allegria, pubblicata nel 1931. La rottura degli schemi tradizionali esprime il vuoto interiore del poeta: attraverso l’uso dell’analogia e la distruzione del verso tradizionale, Ungaretti descrive il proprio stato d’animo, dominato dal senso di distruzione e dallo smarrimento d’identità. La parola assume il valore di un’improvvisa “illuminazione”, perché si identifica con l’attimo in cui, attraverso l’immediatezza dell’analogia, la poesia sfiora ciò che c’è di segreto e indecifrabile. Il poeta riduce allora il linguaggio all’essenziale, abolisce talvolta la punteggiatura, usa spazi bianchi e parole visuali. Il tema dell’esilio è trattato come perdita di ogni punto di riferimento che la poesia ha il compito di sanare proponendosi come ricerca di un’identità originaria perduta. Altro motivo è quello legato all’estraneità (ad esempio in Girovago) ed allude alla condizione del poeta, che non riesce a trovare punti di riferimento, come in Fiumi. Nella poesia, il primo tema è il recupero del passato attraverso la memoria e il secondo tema è il ristabilimento di un rapporto di armonia con il creato, che l’esperienza della guerra sembra aver infranto. Bagnandosi nelle acque dell’Isonzo, il poeta ha la sensazione di essere in piena sintonia con l’universo e con sé stesso. Ciò l'induce a ripensare a tutti i fiumi che ha conosciuto, simbolo delle diverse tappe della sua vita: il Serchio, legato alle vicende dei suoi avi, il Nilo, che lo ha visto crescere negli anni della fervida giovinezza egiziana, La Senna, che ha accompagnato la sua maturazione durante il periodo parigino17. Fondamentale in Allegria inoltre il tema del viaggio, inteso come desiderio di ritrovare la purezza originaria propria dell’infanzia.

A ogni
Nuovo
Clima
Che incontro
Mi trovo
Languente
Che
Una volta
Già gli ero stato
Assuefatto

E me ne stacco sempre
Straniero

Nascendo
Tornato da epoche troppo
Vissute

Godere un solo
Minuto di vita
Iniziale
Cerco un paese
Innocente

(G. Ungaretti, Girovago, 1918)

Nel corso del Novecento, i sommovimenti politici, dalla Rivoluzione Russa al fascismo e al comunismo, hanno alimentato una folta letteratura in cui prevale la componente autobiografica in materia di esili. In Germania, con il termine Exilliterature, si indica la letteratura degli anni dell’emigrazione tedesca anti-nazista, dal 1933 al 1945, contraddistinta da una rappresentazione drammatica dell’esilio, ridotto a cruda e spietata cronaca. Esilio si intitola un romanzo dello scrittore tedesco Lion Feuchtwanger in cui si sottolineano le difficoltà proprie della vita dell’esule. Di ispirazione autobiografica sono anche le opere di Anna Seghers18, come di Brecht, Mann e Perse. Le lotte che hanno caratterizzato diversi Paesi nel corso di tutto il secolo hanno fatto sì che l’esule diventasse sinonimo di rifugiato politico. In Francia, ad esempio, dal 1970 in poi, in seguito all’arrivo di numerosissimi sud-americani fuggiti dalle dittature militari e di italiani ex-terroristi si è sviluppata un’abbondante letteratura sui conflitti politici e lo sradicamento19. Parigi diventerà il rifugio preferito per i protagonisti attivi degli anni di piombo che hanno poi dato vita a una corposa produzione letteraria, basti pensare alle diverse opere di Cesare Battisti a partire dal 1993.
In Spagna, negli anni della guerra civile, gli intellettuali rifugiati ed esiliati contrapposero al fallimento del governo provvisorio della Seconda Repubblica una testimonianza umana e morale, di impegno sociale e civile. Da non tralasciare dunque l’apporto dei poeti della “Generazione del '27” e di altri autori, come Emilio Prados, José Gaos, Xautier Xubiri, Maria Zambrano, Americo Castro e Rafael Dieste. Essi proporranno una figura di intellettuale che non si configura come homo ideologicus, ma come homo faber, che vuole edificare un mondo più giusto con la propria attività culturale20.
Negli Stati Uniti, la massiccia presenza della comunità italiana già a partire dalla fine dell’Ottocento e poi nel corso di tutto il Novecento, ha dato luogo a culture ibride e generi diversi. In ambito strettamente letterario ciò si è tradotto in qualcosa di più della cosiddetta “letteratura italo-americana”. Le tematiche sono infatti molteplici e legate alla diretta esperienza degli autori: l’estrazione sociale e politica, le possibilità di istruzione e miglioramento economico, le relazioni familiari e sociali. Da un lato si hanno, a partire dal primo quindicennio nell’Ottocento, gli autori intenti a trascrivere la biografia della propria emigrazione personale o della propria comunità, con un occhio attento al senso di sradicamento dall’Italia; dall’altro gli scrittori nati all’estero da genitori emigrati. In questo secondo gruppo, John Fante permette sicuramente di indagare una serie di questioni che tagliano trasversalmente la letteratura italoamericana. “L’idiosincratica relazione che Fante intrattiene con l’American Dream gli fornisce il passaporto per uscire dalla 'colonia italiana' senza però dissolversi nel mainstream”; tutta la sua produzione letteraria è caratterizzata da una forte marca autobiografica e da un crudo e ironico realismo21.

Ho vomitato sui loro giornali, ho letto i loro libri, studiato le loro abitudini, mangiato il loro cibo, desiderato le loro donne, ammirato la loro arte. Ma sono povero, il mio nome termina con una vocale dolce e loro odiano me, mio padre e il padre di mio padre22.
- Ti piace il tuo nome?- Mi domandò. – Non preferiresti chiamarti Johnson o Williams o qualcos'altro? Le dissi di no, che mi andava bene così. – Non è possibile, -commentò – stai mentendo -23 .

Centrale è il tema dell’esilio legato alla memoria dell’Olocausto ebraico, il quale ha assunto profondità e importanza nel corso di tutto il secondo Novecento. Al centro della cultura e della spiritualità del popolo ebraico c’è infatti da secoli il motivo dell’esilio, sin da Abramo, padre fondatore che lasciò la città avita Ur dei Caldei, per recarsi nella terra promessa indicata da Dio24.
Per gli ebrei, il rimpianto delle loro case non era una speranza ma una disperazione, sepolta fino allora sotto dolori pii urgenti e gravi, ma latente. Le loro case non c'erano più: erano state spazzate via, incendiate dalla guerra o dalla strage, insanguinate dalle squadre dei cacciatori d'uomini; case-tomba, a cui era meglio non pensare, case di cenere. Perché vivere ancora, perché combattere? Per quale casa, per quale patria, per quale avvenire25?
Di origine ebraiche, il filologo tedesco Erich Auerbach fu costretto a lasciare la Germania nel 1936 per trasferirsi a Istanbul. Auerbach è considerato uno dei padri della moderna stilistica, fondamentale corrente della critica letteraria del secondo Novecento ed è stato, inoltre, uno dei maggiori ispiratori di Edward Said, di cui tratteremo nel prossimo capitolo.
Egli soggiornò per undici anni in una città che stava vivendo uno dei più importanti momenti di trasformazione della sua storia millenaria, e le sue testimonianze epistolari dimostrano come se ne rendesse perfettamente conto26. Nella prima metà del Novecento, il Vecchio Continente sprofondò nella guerra, nell’involuzione politica e nella barbarie. Alla devastazione materiale e morale in cui versava l’Europa nel ‘46, Erich Auerbach, da Istanbul, “finestra sul caos”, rispondeva con l’impegno intellettuale di filologo e di critico della letteratura. Mimesis, “che comparve sullo sfondo del mondo ridotto in macerie”, costituisce la “reazione „silenziosa? ma ostinata di un umanista che, da Istanbul, osservava gli esiti della catastrofe27”.

1.2. L’intellettuale in esilio

Oggi l'Exkforshung rappresenta un ambito disciplinare specifico e riconosciuto a livello mondiale e per il quale la ricerca si avvale di nuove metodologie che intersecano la sociologia. L’esilio, come osserva Claudio Pavone, richiama per lunga tradizione storica e letteraria la situazione esistenziale dell'esiliato, comportando uno spostamento di accento dalla Erfahrung, intesa come esperienza concreta di esilio, alla Erlebnis, la memoria vissuta, segreta e frammentaria e dunque a “un’archeologia” del passato, del presente e del futuro (Benjamin)28.
L’esperienza dell'esilio può tradursi in molteplici forme, avere origini differenti e tradursi in maniere altrettanto dissimili. È un’esperienza che accomuna milioni di persone e che, nella sua drammaticità, è diventata spunto creativo per riflettere il proprio sradicamento, il displacement di cui parla Edward W. Said.

Che potevo ribattere? Che l’esilio, o almeno quello che io vissi in maniera sempre più stremata, è uno stato incommensurabile. Che l’esilio è uno stato che, in realtà, si può descrivere attraverso circostanze misurabili – timbri sul passaporto, luoghi geografici, distanze, indirizzi temporanei, esperienza con varie procedure burocratiche per ottenere il visto, denaro speso chissà quante volte per comprare una nuova borsa da viaggio –, ma una descrizione come questa significa poco. Che l’esilio è la storia delle cose che ci lasciamo alle spalle, un compra e vendi di asciugacapelli, piccole radio da quattro soldi, pentolini per il caffè… Che l’esilio significa cambiare voltaggio e hertz, una vita con il trasformatore, altrimenti ci bruceremmo29.

È la descrizione che Dubravka Ugrešic, croata fuggita dalla sua terra nel 1993, fa dell’esilio nel suo romanzo Il museo della resa incondizionata e può costituire uno spunto per la riflessione sul rapporto tra esilio e scrittura. La centralità che rivestono le immagini nella costruzione del testo, l’assenza di linearità e l’affiancarsi di luoghi diversi rendono il romanzo un collage. Memoria è dolore per coloro che hanno dovuto lasciarsi tutto alle spalle30.

Avevo perso la patria. Non ero ancora riuscita ad abituarmi alla sua perdita, né al fatto di averne ottenuta una identica, ma diversa. In un solo anno avevo perduto non solo casa, amici, lavoro, la possibilità di rientrare in patria presto, ma anche la volontà di rientrarci. Tutto sommato, è una storia troppo lunga perché possa essere raccontata in questa sede. A quarantacinque anni compiuti mi ritrovai in giro per il mondo con una borsa nella quale c’era lo stretto necessario, proprio come se il mondo fosse diventato un rifugio antiaereo31.

Secondo Christiana de Caldas Brito, autrice brasiliana residente in Italia, la letteratura funge da patria per chi emigra e la lingua madre è una delle tre madri che forgiano l’identità di ciascuno, con la madre biologica e la patria. Nei suoi scritti si legge la sensazione che provoca l’abbandono dei luoghi in cui si è nati: è come sentirsi spezzati, a metà, in conflitto con se stessi. Il desiderio di ritorno è forte, ma spesso impossibile da realizzare.

Cara Jandira, ho bisogno di un altro petto per portare il mio dolore. Un petto solo non basta. Ma dove lo troverò se quello che veramente voglio è tornare, tornare indietro, indietro al mio destino? Volevo dare un nome a questo dolore per parlarne senza sentirmi soffocata. I giorni vissuti nel mio paese sono tutti stretti in gola e la mia mancanza di parole esce dagli occhi, mi scorre per la faccia. Ah, come vorrei essere una sola, tutta unita nel sempre e nello stesso posto, senza mai essere uscita, senza dover tornare. Dietro la mia vita, vedo un’altra che non sono io, non vedo questa che vive qui. Cammino come un cane, ma per strade senza odori, trovo alberi mai toccati da altri cani. Vorrei salire su di un mango e sentire l'odore dei manghi, quel profumo giallo che dava sicurezza e che sembrava essere il profumo del mondo. Qui è tutto pulito-pulitissimo, più pulito non si può. Sotto i sassi non ci sono animaletti che si muovono, né vermi né ragni né niente. Qui, c’è soltanto l’odore di limone, ma non del limone della pianta, ma del limone del detersivo e tu senti lo stesso odore nel lavandino, sul pavimento, nei bicchieri, nei vestiti, nelle mani, nella faccia e nella bocca. […]Da sola, con il tempo, ho imparato a riflettere. È brutto quando uno inizia a pensare nella propria vita. Il bello è vivere. Se tu pensi alla tua vita, puoi essere sicura che qualcosa già ti manca. […] Se io potessi, prenderei un panno, pulirei tutta la mia vita, cancellando il viaggio che mi ha portato qui. Sarei rimasta a casa, per sempre senza futuro, dall'inizio alla fine. Andare via non è bello, vedi sempre altre cose quando guardi le tue cose. Diamine di sofferenza32.

Le recenti vicende balcaniche continuano tristemente ad offrire degli spunti creativi a molti esuli. La giovane Elvira Mujcic, nata a Loznica, una località serba e cresciuta in Bosnia, narra la fuga dalla sua terra in lingua italiana nel suo Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica33. La protagonista torna nei Balcani dopo dodici anni di assenza e trova ad aspettarla solo il nonno. In ogni descrizione si percepisce desolazione e l’illusione che tutto possa tornare come un tempo sembra svanita. Non è un testo che inneggia al rancore, ma ha come obiettivo la sensibilizzazione e la testimonianza di uno dei peggiori massacri compiuti dopo la seconda guerra mondiale, in cui sono state uccise a freddo circa 12.000 persone, a cui non è mai stata resa giustizia34.

Mi poggiai alla ringhiera arrugginita. Chiusi gli occhi e wow… Sentivo il profumo della nostalgia, l’odore piacevole del passato. Il vento mi scostò i capelli, l’albero enorme davanti alla scuola fece vibrare le foglie; lui era ancora lì, calmo e statuario. Richiusi gli occhi, potevo sentire le risate, le grida. Mi pareva di rivederli tutti, pronunciavo nomi da tempo dimenticati. Tutto era a colori; la scuola, i vestiti degli alunni, i chioschi […] Poi i colori hanno preso a sbiadire. Ero in classe, eravamo in pochi, solo musulmani. Si diceva che i serbi fossero andati via perché sarebbe iniziata la guerra […] Ho aperto gli occhi. Il mondo era in bianco e nero. Nessun bambino intorno alla scuola, niente maestre35.

L’emigrazione di pezzi interi del mondo artistico, scientifico, accademico europeo ha fatto sì che insieme alle persone singole si trasferisse altrove anche la condanna morale e pubblica del mondo da cui fuggivano. Per gli immigrati, infatti, l’esilio rappresenta la fuga da un regime nemico, è testimonianza attiva, è “resistenza”. L’eccezionalità della condizione risiede anche nel fatto che lasciando i propri Paesi di origine, questi intellettuali hanno, da un lato, la capacità di anticipare nelle loro opere il significato profondo delle crisi del mondo contemporaneo (Enzo Traverso, riprendendo Benjamin, li definisce “segnalatori d'incendi36”); dall’altro, emigrando da una democrazia sperimentata a un’altra democrazia, vi colgono novità e differenze, ma anche pericoli e aporie. Sono proprio loro che negli Stati Uniti hanno avviato per primi le riflessioni e le ricerche sui rischi della democrazia e i pericoli insiti in un’opinione pubblica malleabile e manovrabile da parte dei poteri mediatici37.
Gli esiliati in fuga dalla Germania, in particolare coloro che non sono riusciti a raggiungere i Paesi democratici o vi sono arrivati molto tardi (Arendt, Anders) sono i precoci segnalatori di un altro incendio, di un altro “altrove”, quello dei ghetti e dei lager. A questo proposito, Enzo Traverso parla di un privilegio epistemologico dell’esilio, inteso come una sorta di ricompensa intellettuale, sicuramente pagata a caro prezzo, delle privazioni, delle perdite e dello sradicamento che esso produce38.
L’intellettuale esiliato quindi, benché viva in una condizione scomoda, ha a disposizione uno spazio di libertà, un luogo di osservazione privilegiato il quale presuppone una certa “distanza”, che modifica le prospettive e consente di vedere la realtà sotto una diversa luce39. La separazione non solo può non essere di ostacolo alla critica, ma può addirittura stimolarla, facendo osservare la realtà con caratteristiche inedite.
Arthur Rosenberg, storico e politico tedesco, riconosceva, ad esempio, che il proprio status di esiliato, in seguito all’avvento del nazismo, aveva trasformato radicalmente il suo ruolo di ricercatore. Nel saggio Il compito dello storico nell’emigrazione (1938), egli osservava come l’emigrazione avesse modificato la sua stessa concezione della storia. La sua nuova condizione di esule rompeva le barriere della torre d’avorio nella quale si era da sempre rinchiusa la storiografia tedesca, costringendo a stabilire basi egualitarie con altre discipline. Partendo dalla constatazione che non esiste uno storico senza principi o visione del mondo, egli metteva in discussione il mito della neutralità della scienza, concludendo che l’interpretazione del passato doveva necessariamente essere messa in discussione con la condizione sociale e i valori dello storico stesso40.
Arnaldo Momigliano apparteneva a una famiglia piemontese favorevole da sempre al regime di Mussolini; prese infatti la tessera del partito fascista nel 1932. Quattro anni dopo, nominato professore di storia antica presso l’Università di Torino, scrisse per l’Enciclopedia Italiana un lungo saggio sull’Impero Romano come prefigurazione di quello fascista. Espulso e costretto all’esilio in Inghilterra a seguito delle leggi antisemite del ‘38, tenne a Cambridge un corso sull’antichità romana, dove l’accento si spostava dall’Impero alla libertà41.
Se la distanza modifica i punti di vista, non produce idee però necessariamente nuove. È solo una possibilità data dalle condizioni dello straniamento. Allora esule in Gran Bretagna, il giovane Norbert Ellias, ad esempio, pubblicava a Basilea Il processo di civilizzazione in cui confrontava i pacifici europei ai combattenti abissini42.

1.3. La lingua come forma di esilio

“Ich bin müde”, dico a Fred. Il suo viso pallido e malinconico si stira in un sorriso. “Ich bin müde”, è l’unica frase tedesca che per ora conosco. In questo momento non voglio nemmeno imparare altro. Imparare altro significa aprirsi. E io voglio restare chiusa ancora per qualche tempo43
. Il mettersi in gioco dal punto di vista linguistico è spesso faticoso e il chiudersi dentro se stessi, nella propria lingua madre è uno dei modi di proteggersi. In molti scrittori, il ricorso ad una lingua straniera rappresenta una forma d’esilio. Scrivere in un’altra lingua, infatti, può essere vissuto come una conquista, ma anche e soprattutto come una perdita.
La questione linguistica è centrale in Agota Kristof, nel suo romanzo L’analfabeta. Racconto autobiografico44. Esilio in questo caso è lasciare la propria terra ma anche seppellire la propria lingua, in seguito alla fuga di moltissimi ungheresi dopo l’intervento russo del 195645.

Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo46.

A nove anni la protagonista comprende che esistono diverse lingue. Si imbatte nel tedesco, parlato da una parte della popolazione che vive nella città di frontiera in cui la sua famiglia si è trasferita:

Per noi ungheresi si trattava di una lingua nemica, poiché faceva venire in mente la dominazione austriaca, ed era anche la lingua dei soldati stranieri che in quel periodo occupavano il nostro paese47. E lo stesso si dica del russo, il cui insegnamento viene imposto a scuola, ma recepito senza troppo entusiasmo sia da insegnanti che da allievi. L’imposizione crea rifiuto, attiva “un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé”48.

Lingua nemica è anche il francese, parlato nella città svizzera in cui si rifugia da adulta e che praticherà per il resto della sua vita:

Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna49.

La differenza con la Ugrešic è costituita dal fatto che il rapporto con la lingua straniera può divenire fonte di riscoperta e di rinascita. La protagonista nel capitolo conclusivo si definisce “analfabeta”, ma ha anche la volontà di impossessarsi della lingua e così, in un certo senso, assistiamo ad un lieto fine50.

Qualche giorno fa, sono ritornata a Zurigo. Vi recitano una mia pièce teatrale. Continuo a non conoscere la città, né la lingua tedesca, ma non ho più paura di perdermi. Ho dei soldi, posso prendere un tassì, e conosco il nome del teatro. Quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice. Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua51.

Anche Hannah Arendt discute il proprio rapporto con la lingua materna, sostenendo con determinazione il suo attaccamento al tedesco e il suo distacco dal francese e dall’inglese. Ne dall’esilio52, Iosif Brodskij, scrittore russo fuggito nel ‘72 negli U.S.A. si esprime, a proposito di ciò, in questo modo:

Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula. Quella che all’inizio era una liason privata, intima, col linguaggio, in esilio diventa destino – prima ancora di diventare un’ossessione o un dovere53.

1.4. Scrivere del Regime

I rapporti il tra potere fascista e la cultura italiana furono caratterizzati da cospirazione e consenso, intimidazione e lode. In un Regime autoritario di massa come quello di Mussolini, l’opposizione assunse forme sempre diverse. Il Regime esercitò il proprio controllo sulla cultura a partire da una serie di provvedimenti, tra i quali le Leggi Fascistissime (1926) a causa delle quali furono processati 5619 antifascisti e condannati 4596; e la richiesta di giuramento di fedeltà al fascismo ai docenti universitari, a seguito del quale il Ministro dell’Educazione Nazionale Balbino Giuliano dichiarò nel 1931 decaduti dalla cattedra coloro che si era rifiutati di appoggiare il Regime. Tra i liberi docenti Leone Ginzburg, militante di Giustizia e Libertà, fu l’unico a rifiutare apertamente il giuramento tramite una lettera al suo Preside di Facoltà Ferdinando Neri54.
L’azione repressiva del fascismo si organizzò in cerchi concentrici: il carcere, il confino e l’esilio. Una delle conseguenze più importanti fu rappresentata dall’emigrazione internazionale degli anni ‘30-‘40. Il maggior tributo fu pagato dal Partito Comunista, ma dal anche il movimento anarchico (basti ricordare Armando Borghi e la moglie Virgilia D’andrea nel loro esilio newyorkese, Luigi Fabbri e Mario Mariani a Parigi, Emilio Strafelini a Lipari e Umberto Tommasini a Ustica); dal Partito Socialista Unitario e da Giustizia e Libertà. Tangibile poi la presenza della Giovane Italia, un’organizzazione clandestina sorta a Torino nel 1927, il cui ramo milanese era guidato da Lelio Basso, animatore, tra l’altro, della rivista «Pietre», nata a Genova nel 192655.
Nel 1935, alla vigilia della guerra d’Etiopia, folte presenze antifasciste popolavano le carceri. In quegli anni, un ruolo in primo piano fu svolto da Palmiro Togliatti, vicesegretario della Terza Internazionale, che, tra il gennaio e l’aprile del 1935, tenne presso la scuola leninista di Mosca il Corso sugli avversari. Lezioni sul fascismo. Sempre in quell’anno, quando il Regime stava conoscendo la sua stagione più violenta e repressiva, si svolgeva a Mosca il congresso del Comintern che sancì la svolta antifascista del movimento comunista. Fu soprattutto però la guerra civile spagnola, scoppiata nel luglio del 1936, a mobilitare la cultura europea in chiave antifascista, tanto che verso la penisola iberica accorsero diversi esuli italiani, tra cui Nenni, Togliatti, i fratelli Rosselli e Di Vittorio. Le altre mete predilette dagli antifascisti italiani furono Londra, Mosca, Parigi, New York e Boston. In particolare, sarà la capitale francese il centro principale dell’emigrazione politica europea, soprattutto dopo l'ascesa al potere del nazismo in Germania56.
Sempre in carcere, a Turi, in provincia di Bari, prendeva vita la stesura dei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, complessivamente trentatré; custoditi dopo la morte, avvenuta nel 1937, dalla cognata Tatiana Schuct57. Dopo la fine della guerra, i Quaderni, curati dal dirigente comunista Felice Platone, furono pubblicati in sei volumi dall'editore Einaudi, ordinati per argomenti omogenei unitamente alle Lettere dal carcere indirizzate ai famigliari.

Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali, in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell'elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che, se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo, infine, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un «filosofo», un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare58.

Nel frattempo, nel 1934 , una prima retata antifascista aveva portato all’arresto di quattordici militanti, tra i quali Leone Ginzburg, Sion Segre, Carlo Levi. L’anno dopo, una retata ancora più massiccia, resa possibile dalla presenza della spia Dino Segre alias Pittigrilli, comportò l’arresto di quarantasette intellettuali antifascisti piemontesi, tra i quali Vittorio Foa e Cesare Pavese e interrogate e fermate figure come quelle di Norberto Bobbio, Piero Marinetti, Luigi Einaudi, Franco Antonicelli e Ludovico Geymonat59.
Un numero consistente di militanti giellisti arrestati tra il '34 e il '35 era di origine ebraica, tanto da creare una vera a propria campagna propagandistica tesa a dimostrare l’equivalenza tra “ebreo” e “antifascista” sugli organi di stampa del Regime. A partire poi da 16 ottobre 1938 furono duecento i docenti espulsi per ragioni politiche dalle Università italiane, cinquanta di stirpe ebraica. Fu una vera e propria fuga di cervelli fuori dai confini nazionali. Fin dal 1939-40, le politiche repressive erano condizionate e al tempo stesso inasprite dalle esigenze di guerra. Laddove il carcere romano di Regina Coeli perdeva quella centralità nel sistema repressivo che aveva mantenuto nel corso degli anni trenta, l'isola di Ventotene diventava la capitale dell’arcipelago confinario, in cui si trovavano i detenuti comunisti ritenuti più pericolosi, insieme ad alcuni anarchici, socialisti ed azionisti, tra cui Sandro Pertini e Altiero Spinelli60.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale aveva provocato uno sconvolgimento radicale della mappa degli esuli italiani in Francia: un nucleo significativo si organizzò a Tolosa, nella Zona Libera sotto il controllo del regime di Vichy, fino al 1942: essenziale punto di riferimento e d’incontro clandestino per gli antifascisti italiani era la libreria di Silvio Trentin, giurista di orientamento socialista liberale e federalista, esponente prima di Giustizia e Libertà e poi del partito d’Azione. A Lugano, in Svizzera, Giovanni Battista Angioletti inaugurò invece un Circolo di lettura dove intervennero, tra gli altri, Ungaretti, Montale, Palazzeschi, Contini e Papini.
Anche all’interno delle carceri l’attività culturale era molto sviluppata. Sebbene il Codice Rocco imponesse un attività intellettuale limitata alla lettura di alcuni testi autorizzati, circolavano opere clandestine e i detenuti iniziarono a organizzarsi in “Collettivi”, soprattutto sotto iniziativa degli esponenti comunisti. Un osservatorio decisivo del rapporto fascismo-cultura è dato dal Collettivo giellista composto da Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Massimo Mila. Per questi intellettuali il carcere rappresentò un’esperienza culturale fondamentale che orientò tutta la loro vita successiva. A interessarli soprattutto letture della storia d’Italia, in parte connesse con libri di storia della Chiesa ed in particolare riguardanti la storia del Risorgimento. Furono sempre i libri a caratterizzare il rapporto tra antifascismo fuori e dentro le carceri: proprio all’interno del Regina Coeli, infatti, venne tradotta la Storia d’Europa di Fisher da Ada Marchesini, vedova di Piero Gobetti; così come Barbara Allason tradusse La crisi della civiltà di Johan Huizinga. Nelle carceri fasciste circolarono poi libri che sarebbero diventati il fulcro della cultura antifascista, come Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) di Benedetto Croce; il Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano (1932) di Nelio Rosselli, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, 1915-1918, di Adolfo Omodeo61.
Diverse da quelle del confino erano le implicazioni politiche dell’esilio: mentre la vita in carcere si svolgeva attorno allo studio di questioni tecniche economiche e giuridiche più specifiche, la vita in esilio era concentrata sulle future prospettive politico-ideologiche, anche perché gli esuli, data l’impossibilità di agire immediatamente politicamente in Italia, erano costretti a una pianificazione pedagogica di lungo periodo. Il fuoriuscitismo consentì inoltre alle correnti più vivaci dell’antifascismo italiano di promuovere una vasta rete di rapporti internazionali, confrontandosi con la cultura francese, europea, americana e sovietica62.
Per quanto riguarda le pubblicazioni antifasciste, queste comprendono diversi generi. Molte di esse furono stampate alla fine della guerra, quando videro la luce anche opere concepite negli anni d'esilio, come Paura della Libertà di Carlo Levi scritto in Francia, così come Le origini dell'enciclopedia di Franco Venturi63.
Le Nuove Edizioni di Capolago può essere annoverata tra le più importanti iniziative tese a diffondere i frutti dell'attività intellettuale degli esuli antifascisti nel segno di una rinata coscienza democratica e civile. Nacque formalmente nel 1936 in Svizzera da un piccolo gruppo di fuoriusciti (tra cui Egidio Reale, Odoardo Masini e Gina Lombroso Ferrero) per sopperire all’anomalia per cui dei libri di autori italiani che in quegli anni uscivano in lingue estere mancava un’edizione originale accessibile ai lettori italiani. La storia della piccola casa editrice da subito fu subito costellata di intralci, date le limitate risorse economiche e i titoli proposti che suscitavo più di qualche dubbio. Si trattava perlopiù di opere che nulla aggiungevano al bagaglio culturale dei contemporanei e conferivano alla casa editrice, come scritto da Silone in una lettera a Reale, ‹‹un carattere piuttosto di “difesa di care memorie”›› e a cui aggiunge:

Purtroppo a questo è ridotto “Capolago”, senza che i Ferrero ne abbiano colpa, perché non è colpa loro se nell'emigrazione italiana non vi sono scrittori. L'unico scrittore che abbiamo, il Borghese, continua a pubblicare i suoi libri in Italia64.

In realtà, infatti, il fascismo, a differenza di ciò che era accaduto nel Risorgimento, aveva provocato un’emigrazione, almeno nella sua prima fase, di lavoratori manuali che si trasferirono nella vicina Francia. L'esodo degli intellettuali, delle figura di rilievo e dell’establishment politico e accademico-scientifico, fu un fenomeno più limitato, da mettere in relazione soprattutto nel biennio 1925-26 il quale notoriamente segnò la fine delle libertà politiche nel nostro Paese. Di fatti, l’anno 1927 ha impresso nel fuoriuscitismo il suo carattere definitivo, anche in virtù dell’autorevolezza dei nuovi espatriati. Già due anni prima era andato via dall’Italia Gaetano Salvemini che comparirà poi tra i nomi più illustri delle pubblicazioni delle Nuove Edizioni Capolago.
All’indomani della guerra, con il rientro in Italia e lo sviluppo di un’editoria senza censura, diverse opere poterono essere pubblicate, soprattutto edizioni di libri che avevano già goduto di largo favore in Europa e negli Stati Uniti. Su tutti spiccavano naturalmente gli scritti di Salvemini, primo “maestro” dell’emigrazione antifascista, con la sua produzione polemica verso il Regime fascista su vari fronti: interno (La terreur fasciste); internazionale (Mussolini diplomatico); economico e corporativo (Sotto la scure fascista); di politica ecclesiastica e vaticana (Che fare dell’Italia); giudiziario e di giustizia etnica (Opuscoli sul tribunale speciale e le minoranze); e ancora Silvio Trentin, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Carlo Rosselli e l’intero gruppo di Giustizia e Libertà. Su un altro fronte, altrettanto vitale, si collocavano Silone e Angelo Tasca; i docenti universitari Venturi, Borghesi e Ferrero e poi Lussu, da ricordare per la marcata autonomia di pensiero65.

1.5. L’esilio dell’intellettuale oggi

A partire dalla seconda metà del Novecento, dopo la caduta dei totalitarismi e lo scoppio del boom economico, sui livelli bassi ed intermedi, la cultura è stata progressivamente incorporata nel sistema economico e politico delle comunicazioni di massa. Gli intellettuali, inseriti in questi grandi apparati si sapere-potere, non avendo alcun controllo su di essi, sono passati ad essere semplici “lavoratori della conoscenza” non costituendo più il cemento ideologico della comunità66.
Questa tendenza è all’origine di una serie di contraddizioni, la prima delle quali è rappresentata dall’emergere di una sorta di sottoproletariato intellettuale. Il sistema così strutturato, infatti, sembra aver bisogno di giovani intellettuali disoccupati disponibili saltuariamente e parzialmente capaci di utilizzare dei saperi diversi e non uniformi. I grandi complessi produttivi si impongono dunque come totalizzanti anche in settori che non dovrebbero avere come punto di riferimento esclusivo le regole della produzione e le leggi del mercato, come ad esempio l’educazione, in cui il ruolo di mediazione intellettuale non si è del tutto perso, ma si è modificato burocratizzandosi e delocalizzandosi in apparati di fatto sempre più marginali ma comunque indispensabili, anche in una società postmoderna67.
In questi settori, la figura dell’intellettuale continua ad emergere, essendo capace di collegare fra di loro fenomeni storici, filosofici, artistici e scientifici e a leggerli in una prospettiva culturale non immediatamente riducibile all’ambito economico. I cosiddetti lavoratori della conoscenza. però, pur svolgendo questo compito essenziale per il funzionamento dei grandi apparati tecnologici, burocratici e delle istituzioni pubbliche, sono sempre più privati di qualsiasi riconoscimento sociale. Sebbene contribuiscano alla produzione sociale di valori, si trovano all’interno di meccanismi che frantumano le loro funzioni e potere68.
Alla nascita e al rapido sviluppo di queste contraddizioni bisogna inoltra aggiungere un significativo cambiamento della situazione mondiale e del senso stesso della globalizzazione in atto. Una società che sembrava ormai ignorare il trauma del conflitto o almeno capace di respingerlo ai margini dell’esperienza quotidiana, si trova oggi al centro di un’ansia connesso a fenomeni concreti dell'esistenza69.
Il nuovo intellettuale si trova in una posizione subordinata all’interno dei grandi complessi produttivi o istituzionali, configurandosi come un outsider, un emarginato potenziale e spesso effettivo, ma proprio per questo può “trovare la propria ragion d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate70”. Egli può trovare nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria marginalità, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Privo di autorità e centralità, può far sentire la propria voce cercando forme di organizzazioni nuove, agendo dal basso e puntando sulle relazioni orizzontali a rete71.
È questo il caso di alcuni movimenti come Generazione TQ72, nato nel luglio del 2001 ad opera di ricercatori, artisti, insegnanti, giornalisti trentenni-quarantenni che, considerando la cultura un bene comune come l’acqua73, hanno stilato proposte concrete nel campo dell'editoria e in quello degli interventi pubblici, dalle attività di volontariato nelle scuole pubbliche a seminari tematici aperti a tutti su cultura, politica ed economia74. Altro esempio è costituito da Teatro Valle Occupato75, un movimento che nasce con l’occupazione del Teatro Valle a Roma il 14 giugno 2011, con l’intento di denunciare una situazione di fondi pubblici mal distribuiti e il precariato della categoria artistica.
Un’altra iniziativa, sempre del 2011, è costituita da “La furia dei cervelli76”, promosso dall’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (Acta-Roma) e l’Associazione italiana per la progettazione visiva (Aiap-Lazio). Essa consiste nel mettere per la prima volta attorno allo stesso tavolo una larga rappresentanza delle reti, dei movimenti e delle associazioni di categoria del lavoro indipendente e autonomo nella città di Roma.
Il titolo dell’iniziativa è tratto da La Furia dei cervelli77, il libro scritto da Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, che offre un panorama completo sulla storia del lavoro indipendente e le soluzioni concrete e pragmatiche per affrontare la sua crisi di rappresentanza e per valorizzarne gli aspetti produttivi e sociali più innovativi. L’obiettivo dell’incontro non è solo quello di analizzare e denunciare la condizione materiale in cui versa oggi il lavoro indipendente, ma soprattutto quello di proporre una coalizione a partire da una serie di proposte pragmatiche condivise come la creazione di uno o più luoghi gratuiti, aperti e pubblici di co-working e di co-projecting o la creazione di un sistema di welfare per i singoli e per le loro famiglie.

Capitolo Secondo

Nel segno dell’esilio: Eward Said

2.1.“ Sempre nel posto sbagliato”

Edward Said è un intellettuale, un critico letterario, musicista e militante palestinese nato a Gerusalemme nel 1935 e morto a New York nel 2003. Entrambi i genitori erano di origine palestinese e protestante; il padre originario di Gerusalemme e la madre di Nazareth. Successivamente le loro famiglie si convertirono rispettivamente alla Chiesa Ortodossa e alla Chiesa greco-cattolica. I Said divennero poi anglicani e la famiglia della madre battista. Nel 1914, il padre, terminati gli studi, abbandonò Gerusalemme per evitare di combattere contro i turchi in Bulgaria. Si trasferì quindi negli Stati Uniti, dove si arruolò durante la seconda guerra mondiale, con la speranza di essere mandato in Palestina a combattere contro gli ottomani. Finì in Francia ferito e dopo due anni, alla fine della guerra, fece ritorno in Palestina da cittadino statunitense, assumendo la gestione di un’attività commerciale di famiglia che riuscì ad espandere in Egitto con grande determinazione. Successivamente, dopo la buona riuscita degli affari, si sposò.

Un palestinese, anglicano, american boy, inglese, arabo che parlava francese a scuola e arabo a casa e viveva nell’atmosfera abbastanza soffocante, caratterizzata da una stretta intimità, di una famiglia i cui membri vivevano tutti fra la Palestina e il Libano. Ero inoltre soggetto sia alla disciplina di un sistema scolastico coloniale sia all’influenza di una mitologia importata che non attribuiva nessun valore a quel mondo arabo nel quale l’élite coloniale, per almeno un secolo, ha prosperato78.

A Il Cairo, Il giovane Edward frequentò diverse scuole, ma due suscitarono in lui una particolare impressione: la Gazira Preparatory School (Gps) e il Victoria College:

Nessuna menzione era riservata all'Egitto, o agli arabi, tranne qualche occasionale riferimento ai “nativi” o “wog”79.
Il Gps mi aveva inculcato l'idea che avrei dovuto sempre vergognarmi di un cognome come Said, tuttavia la mia parte di Edward mi avrebbe concesso maggiori possibilità per essere “più inglese”, per agire “da inglese”, per giocare a cricket80.

Nel 1963 tutta la famiglia lasciò Il Cairo, dopo avervi vissuto per trent’anni.

“Dopo il Cairo”, ho spesso detto a mia madre, e “dopo Il Cairo” rappresentava per entrambi un punto di demarcazione delle nostre biografie81>7sup>.

Due nomi, due lingue, più patrie. Nel corso della sua carriera e della sua vita, la costante di sentirsi sempre “nel posto sbagliato”:

[…] mi occorsero quasi cinquant'anni per abituarmi al mio nome, "Edward", o meglio per sentirmi un po' meno a disagio nei confronti di quell'assurdo nome inglese legato di prepotenza al cognome, inequivocabilmente arabo, di "Said". Sì, è vero, mia madre mi spiegò che mi avevano chiamato così in onore del principe di Galles, che nel 1935, anno della mia nascita, si era guadagnato le simpatie di tutti, mentre Said era il nome di vari zii e cugini. Ma queste giustificazioni perdettero ogni fondamento quando scoprii che non avevo nonni chiamati Said, e ogni sforzo di mettere in relazione il nome inglese di fantasia con il suo compagno arabo naufragò di conseguenza. Allora per anni, a seconda della situazione, nel presentarmi, mi "mangiavo" l'Edward sottolineando il Said; oppure facevo il contrario, oppure, ancora, li pronunciavo insieme così rapidamente che nessuno dei due risultava chiaro. Quello che proprio non sopportavo (eppure quante volte fui costretto a subirla!), era l'inevitabile reazione incredula, e dunque per me corrosiva: Edward? Said? Alle pene causate dall'avere un simile nome si aggiungeva il problema altrettanto destabilizzante della lingua. Non sono mai riuscito a sapere quale abbia parlato per primo, se l'inglese o l'arabo, né quale fosse al di là di ogni dubbio la mia vera lingua. Quello che so, tuttavia, è che sono sempre state presenti insieme nella mia vita, l'una risuonando nell'altra, a volte con ironia, a volte con nostalgia, il più delle volte l'una a correzione e commento dell'altra. Ciascuna delle due potrebbe sembrare la mia lingua madre, ma nessuna delle due lo è82.

L’opera forse più rappresentativa di Said è Orientalismo, l’immagine europea dell’Oriente è un saggio pubblicato nel 1978 e scritto tra il 1975-76, periodo in cui Said è membro del Center for Advanced Study in the Behavorial Sciences di Standford.

L'Oriente presentato dall'orientalismo è […] un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che introdussero l'Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali83.

L’obiettivo del saggio è quello di mettere in luce il carattere mistificatorio e parziale del concetto di Oriente per le culture europee. L’autore analizza quindi il mutevole rapporto storico e culturale tra Europa e Asia soffermandosi sull’insieme di supposizioni, immagini e fantasie prodotte sull’Oriente. Egli definisce l’Orientalismo come “il modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale”84. Esso ha principalmente tre accezioni: nella prima, quella accademica, è l'insieme delle discipline che studiano i costumi, la letteratura, la storia dei popoli orientali e “orientalista” è lo colui che si interessa a questi temi.
Nella seconda accezione, più ampia, è uno stile di pensiero che si fonda su una divisione ontologica ed epistemologica tra Occidente e Oriente.
Nella terza, si può interpretare come l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente; gestione basata oltre che su rapporti di forza economica, politica, militare, anche su fattori culturali, cioè su un insieme di nozioni veritiere o fittizie sull’Oriente. In questa accezione, di derivazione foucaultiana, l’Orientalismo viene rappresentato come “discorso” (Michael Foucault, L’Archeologia del sapere85 e Sorvegliare e punire86) per spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare e persino creare l’Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo dopo il tramonto dell'Illuminismo.87
Non consiste quindi solo in una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, bensì si tratta di un corpus teorico e pratico entrato come sistema di conoscenza dell’Oriente nella cultura Occidentale. È interamente basato sull’esteriorità, su un modo di rappresentare e spiegare quella regione del Mondo a un’altra regione per renderla meno misteriosa, facendola esistere solo per come viene descritta e spiegata.
Un’esposizione enciclopedica sul tema sarebbe stata impossibile dato l’illimitato materiale di riferimento, dunque l’autore ha scelto di soffermarsi al particolare rapporto tra l’esperienza anglo-franco-americana e il mondo arabo islamico, per secoli considerato paradigma dell’intero Oriente. Una rilettura del testo viene proposta nel saggio Rileggere Orientalismo, compreso nella raccolta Nel segno dell’esilio (2000). L’obiettivo dell’autore, in questo caso, non è quello di rispondere alle numerose critiche sollevate da Orientalismo, tra le quali le presunte lacune nella ricerca (come sull’orientalismo tedesco), e le accuse di un lavoro astorico e inconsistente. Piuttosto si tenta di riconsiderare eticamente e metodologicamente l’Orientalismo in riferimento a teorie come quella femminista, i Black Ethnic Studies e gli studi di matrice socialista e antimperialista, i quali assumono come punto di partenza il diritto di gruppi umani in precedenza non rappresentati o mal rappresentati a parlare in prima persona e a rappresentare se stessi “in ambiti intellettualmente e politicamente definiti dal fatto di aver sistematicamente escluso tali gruppi, usurpato le loro funzioni di significato e di rappresentazione e calpestato la loro realtà storica88”. “Rileggere l’orientalismo in questa prospettiva più ampia e libertaria implica nientemeno che la creazione di oggetti per un nuovo tipo di sapere” 89.

Lungi dal voler essere una difesa degli arabi e dell’Islam – come invece hanno pensato in molti - il libro intendeva dire che non è mai esistito nulla se non delle “comunità di interpretazione”, e che ogni designazione come quella di Oriente rappresentava interessi, progetti, ambizioni e retoriche tra loro non solo in profondo disaccordo ma addirittura in aperto conflitto90.
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Centrale in tutta la riflessione di Said è il ruolo dell’intellettuale, affrontato approfonditamente nel testo Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1995):

Ogni intellettuale ha un pubblico e dei sostenitori. ma quel pubblico va lusingato alla stregua di un cliente da soddisfare? Oppure sollecitato a porsi apertamente all'opposizione, a scegliere una partecipazione sociale a più vasto raggio, più democratica? In ambo i casi, al potere e all'autorità non si sfugge, né l'intellettuale può eludere quel rapporto. Quale atteggiamento assumere: da professionista supplice oppure da dilettante senza medaglie, coscienza critica del potere91?

L’intellettuale la cui professione consiste nel ricevere compensi offrendo servizi al potere non è in alcun modo stimolato ad esercitare la sua capacità di giudizio con spirito critico e in una certa misura indipendente92. Solo considerandosi sempre un dilettante, può dedicarsi ai propri interessi con la necessaria autonomia e, non avendo nessun ruolo assegnato, uscire dal proprio campo di ricerche e sperimentare strade sempre differenti. Diversamente dal professionista, non cerca di soddisfare ambizioni immediate, in quanto mosso da motivazioni che trascendono i doveri lavorativi e spinto delle proprie idee.
Posto che esista una sostanziale differenza nel ricevere un compenso per la trasmissione del sapere ad una platea pubblica e a una cerchia di funzionari, Said, durante tutta la sua carriera, rifiuta il rapporto con un solo giornale o con una sola emittente televisiva, per evitare vincoli a determinati linguaggi politici o impianti ideologici.
L’intellettuale che rinuncia alla libertà di espressione e di opinione o la lascia manomettere in qualsiasi modo, rinuncia anche alla propria vocazione, cioè quella di dire la verità, in base ai propri valori e principi. Per questo

Prendere le difese de I versi Satanici di Salman Rushdie ha assunto un'importanza fondamentale: difendere quel libro significa battersi contro ogni violazione del diritto di esprimersi da parte di giornalisti, romanzieri, saggisti, poeti e storici.93.

2.2. Nel segno dell’esilio

[…] L’aspetto di cui New York rappresenta la punta avanzata, è data dal numero di persone che hanno esperito quella particolare forma di sradicamento e di dislocazione che li ha resi degli espatriati e degli esuli94. È soprattutto New York ad aver giocato un ruolo decisivo per il lavoro critico ed interpretativo di Said sull’esilio. Una città che egli definisce dinamica, elettrizzante, paragonabile alla Parigi di un secolo fa; la capitale del nostro tempo, non sempre confortevole, spesso teatro di marginalità e solitudine95.
Ellis Island è diventata il luogo per eccellenza dell’immigrazione, aprendosi dalle popolazioni più disagiate. Le comunità migranti hanno poi dato vita al cuore culturale della città, incarnato nei movimenti socialisti ed anarchici, nella Harlem Renaissance e nelle sperimentazioni delle arti figurative, della fotografia, della musica, del teatro. Col tempo, però, i tanti musei, scuole, sale da concerto, teatri, gallerie d’arte hanno trasformato la città in un palcoscenico permanente, facendole smarrire ogni contatto con i migranti96.
Anche la Palestina, intesa come oggetto di proiezioni immaginarie, culturali, religiosi e ideologiche, è uno dei territori che ha profondamente influenzato il lavoro di critica sull’esilio di Said, come testimonia la raccolta Il segno dell’esilio.
Il testo comprende quarantasei saggi, scritti tra il 1967 e il 2000 su una sorprendente varietà di argomenti, dalla diaspora palestinese al confronto tra culture e il riferimento a testi e autori più disparati, da Hemingway a Conrad, Orwell, Vico, Gramsci.
Said parla di “vite” reali di esiliati come Faiz Ahmad Faiz, che definisce il più grande poeta contemporaneo di lingua urdu, costretto a fuggire in Pakistan a causa della dittatura militare di Zia; così come Rashid Hussein, che tentò con successo di instaurare un dialogo tra scrittori ebrei ed arabi ma che, non riuscendo a sopportare le pressioni di quell’ambiente saturo, dovette partire per New York, dove morì dopo l’ennesima naufragata nell’alcool; o Noubar, un armeno “solitario”, costretto ad abbandonare la Turchia dopo il 1915, in seguito al massacro della sua famiglia. Sono delle biografie appena accennate che però ridefiniscono gli obiettivi della critica e della letteratura dell’esilio, ossia abbandonare Joyce e Nabokov e rivolgersi alle masse anonime di sfollati97.

Incontrare un poeta in esilio – esperienza opposta a quella di leggere poesie sull’esilio – significa vedere le antinomie dell’esilio incarnate e sopportate con un’intensità assolutamente senza pari98.

Sorvegliare e Punire è uno dei testi che influenza maggiormente gli scritti di Said, sebbene egli riconosca che Foucault sia caduto spesso in una trappola teoretica, nella generalizzazione e nell'astrazione. Richiamandosi alle critiche di Chomsky all’intellettuale francese (1979, 2005) ne condivide la sostanza, sostenendo che il difetto della teoria è l’essere costruita unicamente sul modello francese99.
Nel considerare poi l’esilio in chiave “metafisica”, quindi vicino al significato di diaspora, di dissonanza, resistenza e dissenso, Said si avvicina alle posizioni espresse da Hall, Clifford e Gilroy100.
Intendendolo non solo come spazio di privazione, ma anche come luogo di osservazione privilegiato, come apertura a spazi di libertà, invece, riprende le posizioni espresse da Adorno e dal meno noto C.L.R. James. L’esilio diviene allora fonte di una “doppia prospettiva”101.
Ulteriori influenze vengono da Vico, data la sua particolare postura intellettuale ironica, scettica, persino giocosa, e dal collettivo dei Subaltern Studies, decisivo per l’uscita dalla dicotomia oriente/occidente, in direzione di una prospettiva policentrica102.
Per chiarire inoltre quale sia la nuova prospettiva che la coscienza critica deve assumere, Said si rivolge all’esempio di Erich Auerbach, il quale è stato capace di trasformare la propria esperienza di esilio nella superba impresa di scrittura di Mimesis, un testo che pretende di abbracciare l’intera parabola del realismo occidentale103.

2.3. La condizione dell’esilio

L’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi. È una crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo104.
Le conquiste di un esule sono costantemente minate dalla perdita di qualcosa che si è lasciato per sempre alle spalle105.

La condizione di esilio è un fondamento teorico dell’intera riflessione di Said poiché essa dà luogo ad un atteggiamento che, in Secular Criticism, egli ha definito attraverso la categoria di “coscienza critica”, intesa come “[…] capacità di comprendere una teoria riferendola al luogo oltre che al tempo nel quale è sorta, per poi misurare gli scarti e le trasformazioni che essa ha subìto e prodotto negli altri luoghi e tempi nei quali si è trovata a operare106”.
La cultura dell’Occidente moderno è in larga parte il prodotto di esuli, emigrati, rifugiati. Negli Stati Uniti, “il pensiero accademico, intellettuale ed estetico si è costituito in primo luogo da chi è fuggito dai fascismi, dal comunismo e da altri regimi”107. George Steiner ha per questo avanzato la tesi per cui un intero genere della letteratura occidentale del XX secolo dovrebbe considerarsi “extraterritoriale”: una letteratura da e sull'esilio108.
Per Said, un esule si sentirà sempre al posto sbagliato. Guarderà con risentimento “gli altri”, coloro che appartengono davvero al luogo in cui egli vive. Il senso di perdita degli esuli è spesso riscattato dalla creazione, quindi, di un mondo tutto nuovo, tutto da governare109. Non sorprende allora che tra gli esiliati abbondino scrittori, giocatori di scacchi, attivisti politici, intellettuali: tutte professioni che richiedono un senso minimo in risorse materiali e senso del luogo, offrendo in cambio gratificazioni notevoli in termini di mobilità sociale e professionalità110.
Questa condizione prende origine dall’antica messa al bando. Una volta bandito, l’esiliato era costretto a vivere una vita “fuorilegge e miserabile111” e lo “stigma dell'ousider112” lo accompagnava per tutta la vita. Lo status di rifugiato invece prende vita a partire dalle pratiche statuali del XX secolo; ha da subito assunto un significato politico, alludendo alle masse di individui innocenti sradicati. Gli espatriati, invece, compiono una scelta volontaria: per motivi personali o strettamente sociali113, infatti, decidono di vivere in un altro Paese, ma non potranno mai, secondo Said, condividere la vera solitudine che scaturisce dalla condizione di messa al bando. I migranti, invece, godono di uno status piuttosto ambiguo, poiché si definisce migrante chiunque emigri in un Paese diverso dal proprio e non sempre questo coincide con la condizione di esiliato, come nel caso di Ufficiali, missionari o tecnici specializzati114.
Said non ritiene l’esilio un privilegio, bensì un’alternativa115 alle istituzioni di massa che dominano la vita moderna; non è una scelta: ci si nasce dentro, o semplicemente “succede”116. L’esempio più rigoroso è rappresentato da Theodor Adorno, e la sua opera Minima Moralia, autobiografia scritta in esilio, dal sottotitolo “riflessioni di una vita mutilata”. Adorno concepiva l’esistenza contemporanea come compressa in forme preconfezionate117; qualsiasi cosa un uomo può dire o pensare o qualsiasi oggetto possedere, non sono altro che merce. Rifiutare questo stato di cose è la missione intellettuale dell’esule. L’unico rifugio diviene allora la scrittura e “non sentirsi a casa nella propria casa fa parte della moralità del presente”118.
Riportando le parole, tanto care ad Auerbach, di Hugo di Saint- Victor, monaco sassone del XII secolo, Said scrive:

[…] L'uomo che trova dolce la propria terra è ancora un debole principiante; colui che considera ogni terra alla stregua di quella in cui è nato è già forte; ma perfetto è colui al quale il mondo intero appare come una terra straniera119.[…]

Capitolo Terzo:

Esilio come dispatrio: Luigi Meneghello

3.1. Un antifascista a Oxford

Luigi Meneghello nacque a Malo, in provincia di Vicenza, il 16 febbraio 1922. Dal 1937 al 1939 la famiglia si trasferì nel centro storico di Vicenza, in via Stradella San Marcello, per facilitare la frequentazione dei figli a scuola. Nell'ottobre 1939 si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova.
Nel maggio 1940 partecipò ai Littoriali nel campo della “dottrina fascista” e vinse il concorso. Una sintesi del suo testo venne pubblicata nel numero di “Gerarchia” del giugno 1940 con il titolo “La dottrina del fascismo e la politica del Regime nel pensiero dei Littori. Razza e costume nella formazione della coscienza fascista.”
Nell'estate del 1940 incontrò alcuni antifascisti, tra i quali Antonio Giuriolo, Antonio Barolini, Neri Pozza (futuro editore), i critici Luigi Russo e Francesco Flora, Aldo Capitini, Carlo Ludovico Ragghianti, Renato Ghiotto. Si unì anche il fratello Bruno al gruppo, dal quale, tra l'autunno del 1942 e il gennaio 1943, nacque a Vicenza la sezione veneta del Partito d'Azione. Ne I piccoli maestri (1964)120, Meneghello ricorda quell'esperienza:

Fin dal principio intendevamo bensì tentare di fare gli attivisti, reagire con la guerra e l’azione; ma anche ritirarci dalla comunità, andare in disparte. C’erano insomma due aspetti contraddittori nel nostro implicito concetto della banda: uno era che volevamo combattere il mondo, agguerrirci in qualche modo contro di esso; l’altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera” poiché c’era “la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica… Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova, che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l’educazione, la natura, la società121.

Vista l'evoluzione politica e culturale dell'Italia, tra la fine del 1946 e il 1948, maturò l'idea di emigrare. Nella primavera del 1947 vinse un concorso del British Council per un anno di studio presso l'Università di Reading, dove si trasferì nel settembre 1947.

Ero convinto invece che “fuori” ci fosse un mondo migliore, migliore non solo di qualche grado, ma incomparabilmente. E la chiave era la cultura dell’Europa moderna, per brevità avrei detto della Francia e dell’Inghilterra122
.

L'università inglese lo incaricò il 30 settembre 1948, per due anni, degli “insegnamenti sull'influenza italiana nello sviluppo della letteratura, l'arte e la filosofia inglesi”.
Il 23 settembre 1948 sposò a Milano Katia Bleier (è la K. citata in tutti i libri dell'autore), un'ebrea jugoslava di lingua ungherese, nata e cresciuta in Backa (Voivodina) e dopo a Zagabria, da dove, nell'aprile 1941, era stata sfollata con la famiglia a seguito dell'invasione tedesca123.
A Oxford, Meneghello lavorò alle dipendenze del Professor Donald Gordon, direttore del Dipartimento, che, come avrà modo di scrivere nel necrologio per la morte avvenuta nel 1977, considerava un vero e proprio “tutore”. Dal dicembre 1952 al 1954, collaborò in modo assiduo con la rivista «Comunità» di Adriano Olivetti con temi relativi al periodo della seconda guerra mondiale e a Hitler.
Negli anni successivi al 1980 e fino al 2004, anno della morte di sua moglie Katia, Meneghello visse tra l'Inghilterra e la città di Thiene, che lo aveva insignito nel 1989 della cittadinanza onoraria. Morì, sembra d'infarto, nella sua casa di Thiene il 27 giugno 2007, soli sette giorni dopo aver ricevuto l'ultima laurea honoris causa dall'Università di Palermo e in procinto di ricevere il premio dell'Accademia dei Lincei prevista per il 6 luglio.
Quasi tutte le opere di Meneghello hanno un’impronta autobiografica. In Libera nos a malo124 del 1963, la sua opera forse più significativa, egli ricostruisce in una sorta di rivisitazione autobiografica gli usi, i costumi e la vita sociale del paese natale, tracciando un ritratto della provincia vicentina, della sua gente e della sua cultura dagli anni trenta agli anni sessanta.

Questo sentirsi insieme, e contenti, è supremamente importante. Si profilava tra gli amici abituali uno schema di rapporti stabili; gli amici diventavano una Compagnia. Pareva di essere non solo al centro del mondo, ma investiti di un privilegio speciale. Per i ragazzi di un paese la Compagnia è l'istituto-madre. È un'associazione libera, un club senza sede e senza regolamento, mai suoi legami sembrano in quegli anni più forti di ogni altra associazione naturale o tradizionale. Sorge ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini di contrada, coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi fondamentali di contare le generazioni in paese. [...] Negli anni dell'adolescenza e della gioventù la Compagnia è l'istituzione più importante di tutte, l'unica che sembra dar senso alla vita. Stare insieme con gli amici è il più grande piacere, davanti al quale tutto il resto impallidisce. «Il tempo che si trascorreva lontano dagli amici pareva sempre tempo perduto», dice mio fratello125
.

Interessante è il linguaggio ironico, innovativo e divertente (sin dal titolo Meneghello gioca con le parole finali del Padre Nostro latino e col nome del suo paese, Malo) inframmezzato da espressioni tipiche della lingua veneta. Seguendo la tecnica del flusso di coscienza, l'autore collega i pensieri l'uno all'altro attraverso semplici parole definite "parole-amo", ossia in grado di "tirare a sé" una serie di idee, di realtà, di immagini, che vengono concatenate l'una all'altra. Nel testo, il filo conduttore della vicenda è la vita dell'autore, in particolare la sua infanzia; mentre fanno da sfondo il fascismo (per quanto riguarda i primi anni della sua vita), la vita della famiglia, l'istruzione e la religione cattolica. Altro tema è la felicità e la riflessione da parte dell’autore su cosa l’umanità abbia perso e cosa guadagnato con lo sviluppo economico.
I piccoli maestri del 1964, si inserisce tra le più importanti testimonianze della lotta partigiana di Resistenza in Italia. L'opera è un racconto diretto e in prima persona dell’esperienza da partigiano di Meneghello: vengono alla luce i contrasti interni, la figura del suo maestro, il Capitan Toni (Antonio Giuriolo), le difficoltà e il senso di inutilità causato dalla scarsa operatività delle formazioni partigiane. La struttura del racconto è spesso condizionata dalla sospensione del recupero memoriale in prima persona e dall'uso di “una voce anonima, non firmata o corale”126.
Se pure avviato in forma di abbozzi nei primi anni Cinquanta, il romanzo vedrà la luce, come già detto, solo nel 1964, quando l’autore è già «esule» in Inghilterra, ma è Sorprendente la fedeltà ai particolari, come Meneghello stesso scrive in una nota all’opera: “Mi ero imposto di tener fede a tutto, ogni singola data, le ore del giorno, i luoghi, le distanze, le parole, i gesti, i singoli spari”127. Nel romanzo si incontrano il «passato come storia» e il «passato come memoria»; è infatti artificio romanzesco, documento obiettivo e veritiero, ma anche monito civile e pedagogico128. Sotto la spinta della memoria privata e della necessità di conservarla, c’è quindi un preciso intento etico-ideologico, di tipo storiografico: è la necessità di rappresentare la Resistenza Italiana in chiave anti-eroica, al di là delle retoriche militaresche e patriottiche che già ne deformavano l’immagine e la percezione129.
“L"anti-epica”130 di Meneghello parla della solitudine dell’intellettuale italiano di fronte al procedere della storia. La condizione viene affrontata con sguardo duplice e ironico, partecipe e corrosivo131; ma soprattutto denuncia la profonda condizione di debolezza della società italiana che rimuove memoria e significato politico di quell’esperienza.

Domandai quindi al Castagna: «Perché siete qua voi altri?».
Il Castagna disse: «Come perché?».
«Come mai che vi siete decisi a venire qua?»
«E dove volevi che andassimo?» disse il Castagna.
Questo chiuse questa parte dell’indagine. Poi io dissi:
«E quando finisce la guerra, cosa pensate di fare?».
«Andiamo giù, no?»
«E cosa farete, quando siete giù?»
«I saccheggi» disse il Castagna.
Annuii con un senso di scandalo non disgiunto dall’ammirazione.

M'informai se c'erano dei piani prestabiliti per questi saccheggi. Mi
parve di capire che il Castagna pensasse soprattutto a dei
festeggiamenti, un banchetto all’aperto, il tiro alla fune, le corse nei
sacchi tra ex fascisti. Sacchi, da cui forse saccheggi.

«E poi?» dissi «dopo i saccheggi?»
Il Castagna si mise a guardarmi, e disse: «Voi siete studenti, no?».
Io feci segno di sì, e lui disse: «Si vede subito che siete finetti».

«Castagna» dissi. «Non credi che bisognerebbe provare a cambiare
l’Italia? Non andava mica bene, come era prima. Si potrebbe dire che
siamo qui per quello.»

«A dirtela proprio giusta,» disse il Castagna «a me dell’Italia non me
ne importa mica tanto.»
«Ma t’importerà chi comanda a Canòve, no?» Canòve era il suo paese.
Disse che si sapeva già, chi avrebbe comandato a Canòve.

«Sentiamo» dissi.
«Il sottoscritto» disse il Castagna.
«Solo per qualche giorno.»
«Facciamo qualche settimana.»
«E dopo?» dissi io.
«Dopo andrà su un governo, no?»
Gli domandai se non gli interessava che governo andasse su.

Il Castagna mi disse di fargli vedere le mani. Gliele feci vedere dalla
parte delle palme (perché questa frase in dialetto vuoi dire così) e lui ci
mise vicino le sue. Sulle palme io avevo qualche callo qua e là, ma
recente, pallido, avventizio; lui aveva tutta una crosta antica, scura,
quasi congenita; non erano calli, ma una mutazione dei tessuti.

«Vedi?» disse il Castagna. «Quando va su un governo, noialtri
dobbiamo lavorare.»

«Anche se fossero fascisti?» dissi.

«Eh no, per la madonna» disse lui. «I fascisti non sono mica un
governo.»

«Già» dissi io. «I fascisti sono...» Cercavo una formula salveminiana.
«Rotti in culo» disse il Castagna.

Questo era il suo ethos. Mi disse anche cosa avrebbe fatto se per
disdetta tornassero su proprio loro.

«Allora,» disse «torniamo su anche noi. Torniamo qua.»132

Le vicende della Resistenza sono centrali anche in Pomo pero. Paralipomeni di un libro di famiglia133 (1974); mentre In Fiori italiani134 (1976) l’autore racconta, ancora in una prospettiva sociologica, gli anni della sua formazione scolastica, cercando di rispondere alla domanda “Che cos’è un’educazione?”. Bau-sète135 (1988) è il resoconto comico delle vicende italiane nell'ultimo dopoguerra, condotto in una chiave antirealistica, che privilegia atteggiamenti interiori, sentimenti e speranze di quel periodo. In seguito sono apparsi Maredè, maredè...136 (1991), Il dispatrio137 (1993), La materia di Reading e altri reperti138(1997), che hanno confermato la duplice ispirazione di questo autore, tra la rievocazione del mondo (anche linguistico) di Malo e i temi dell'educazione scolastica tra fascismo e anni Cinquanta.
Meneghello è autore anche di alcuni saggi: Jura. Ricerca sulla natura delle forme scritte139 (1987); Leda e la schioppa140 (1989); Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d'Europa 1939-1945141 (1994, ma precedentemente pubblicato a puntate su Comunità tra il dicembre 1953 e l'aprile 1954 con lo pseudonimo di Ugo Varnai). Dopo l'edizione complessiva delle Opere142, egli ha dato inoltre avvio alla pubblicazione in tre volumi dei suoi scritti inediti: Le Carte143. Nel 2006 la Fandango Libri ha edito Ritratti, un libro con DVD di un film girato da Carlo Mazzacurati e Marco Paolini su Luigi Meneghello, uno degli autori più significativi del Novecento.

3.2. Il dispatrio

La mente in esilio, per evitare che muoia. Esiliarsi da sé. Continuare ad esiliarsi ogni giorno. Per odiare e per amare (in depth) bisogna star fuori144.

È ne Il dispatrio che Meneghello racconta come “sui venticinque anni, quando incomincia il fiore della gioventù a perdere”145 decide di trasferirsi in Inghilterra con l'idea di starci solo dieci mesi. In realtà, vi resterà per più di cinquant’anni, alternando il suo soggiorno inglese a lunghe permanenze a Thiene, nel Vicentino, dove torna ogni estate.
L’opportunità del trasferimento è data dalla vincita di una borsa di studio del British Council.

In Italia, a qualche anno dalla fine della guerra, le cose si erano messe male. Si veniva istaurando un regime che consideravo nefasto, e il panorama culturale mi sembrava particolarmente deprimente. Si sentiva nell’aria la pesantezza della nostra cultura tradizionale, comune matrice degli indirizzi più palesemente retrivi a cui si appoggiava il nuovo regime, e di quelli velleitari e in parte spuri che cercavano di contrastarlo146.
Nei suoi scritti, l’autore ritorna spesso sulle ragioni che lo hanno spinto ad abbandonare l'Italia. Tra queste, sicuramente la necessità di fuggire da un ambiente socio-culturale “vecchio” per cercare un clima dinamico ed aperto.
Mi pareva che il mio Paese mi scacciasse dalla sua politica, non per cattiveria sua o mia, ma per una nuova rispettiva conformazione: e che la speranza di far confluire in qualche punto la mia vita privata con quella pubblica del mio Paese (che purtroppo mi ero messo in testa che fosse il senso più alto della mia vita) fosse morta147.

Meneghello si allontana volontariamente da un’Italia che avverte come retorica e vuota, sommersa dai detriti di vent’anni di fascismo. La sua polemica, già espressa nel racconto dell’esperienza partigiana e inserita poi in forma narrativa a partire dagli anni Sessanta, si scaglia contro quelli che Ernestina Pellegrini ha definito «i tumefatti bubboni della società italiana»148: fascismo, cattolicesimo, accademico e lo stesso modo di essere, scrivere e pensare di una civiltà retorica di cui Meneghello non riesce a condividere lo sguardo149.

Partivo col vago intento di imparare un po? di civiltà moderna e poi tornare e farne parte ai miei amici ed atri italiani. Ma invece ciò che avvenne fu un trapianto150.

Anche questo testo è scritto come flusso di coscienza e inconfondibile è lo stile ironico e giocoso dell’autore:

Quando sentii suonare il gong, e io allarmato venni giù a vedere, in fondo alle scale c’era una vecchietta molto brutta e squilibrata, un po? da circo devo dire, che volle sapere da dove venivo, e si mise a spiegarmi quanto bene aveva fatto Massolini all’Italia! Massolini: e io sorridere per profondo nervosismo, invece di dirle: Vecchietta, andate al circo. La civiltà moderna, la democrazia, producevano dunque anche questi mostri151?

Forte è l’influenza che la cultura britannico esercita sull’autore nel corso della sua esperienza all’Estero, come egli stesso esprime con la frase: “L’anima si anglicizza a tua insaputa”152, descrivendo come sentimento più frequente lo stupore; il Paese che lo ospita viene percepito come qualcosa di separato dal resto della vita europea: “Tutto era fuori dalla gamma di ciò che consideravo naturale […] Pareva un’altra schiatta, quasi un’altra specie”153.

La gente spartiva davvero le risorse disponibili, spartiva il cibo, il carbone, i vestiti, le tasse, le “code”, le scomodità della vita, in modi inconcepibili in Italia. […] Contrapponevo la serietà inglese, le ristrettezze da tempo di guerra, le privazioni condivise e accettate come base della vita comune, alla cultura del privilegio che dominava in Italia154.
In generale, quelli che parlano dello snobbismo degli inglesi senza essere vissuti per anni con gli inglesi, non è certissimo che sappiano di cosa parlano. Si tratta di un’essenza così sottile che al momento in cui la cosa snob è fatta o detta può accadere che non la si avverta […]155.
Credo che in ordine di importanza concettuale la prima tra le idee che ho messo a fuoco in Inghilterra sia stata la nozione di genuinità, di ciò che è autentico, o si potrebbe anche dire vero. Strano, essere venuto ad attingere l’idea della verità e della schiettezza nel paese dell’ipocrisia…156

Particolare curiosità è suscitata dalla fibra morale del Paese157, che viene percepito come aspro e austero, e meravigliosamente serio158; il pudore inglese e il rispetto per le convenzioni sociali sono avvertiti dall’autore come quasi inconcepibili per la cultura italiana, ma molto rispettati:

[…] con la caratteristica goffaggine inglese quando toccano anche la minima parte di un lacerto umano, e ripeteva «He’s a married man».
E la diffamazione? […] Se ti capita di diffamare qualcuno, anzi se diffamano te (forse era questo il punto!), più è vero quello che dicono, più è grave il reato di diffamazione. Traspariva uno speciale riguardo per il fondo contro-intuitivo di leggi o regole come questa, in cui si esprime l'onnipotenza delle convenzioni sociali. […]160.
Anche con gli aggettivi bisognava stare attenti. In essi si possono occultare odiosi solecismi che disturbano l'andamento della conversazione. La conversazione in Inghilterra mi ha sempre creato difficoltà. Ho passato anni a cercare di imparare a farla. Mi è capitato più volte di pensare che la conversazione degli inglesi colti sia la più complessa e raffinata possibile nel presente stadio di sviluppo della specie. Una sua zona centrale è fondata sul non dire161.

In Meneghello il dispatrio ha un ruolo fondamentale in tutta la sua esperienza di uomo e letterato. Attraverso un processo continuo di identificazione e disidentificazione, partecipazione e distacco, produce una “doppia assenza” data dalla “corrente alternata” tra madrepatria e Paese di accoglienza nel quale l'immigrato è incorporato ed escluso al tempo stesso162.
Questo processo interessa anche l'aspetto linguistico, poiché la nuova condizione apre prospettive non solo sulla “nuova” lingua, ma anche sulla propria, perché si tratta di una lingua disambientata, fuori dal contesto originario.

Trovandomi dunque nel mezzo di questo sistema così diverso, cominciai ad assorbire una buona dose della sua sostanza, e la assorbivo con avidità. Non si trattava di una cultura che ne soppiantava un’altra, ma della formazione di un secondo polo culturale. Il risultato finale fu infatti una forma di polarità che venne a investire quasi ogni aspetto della mia vita intellettuale163.

3.3. Traduzione, plurilinguismo e diglossia nell’opera di Meneghello

Death qui in Inghilterra non è donna, naturalmente, non porta la veletta coi lustrini, non va a dire ai giovanotti orfici «Je sui sta mort»: ma nel complesso non è nemmeno uomo, è un tranvestite164.

Il Dispatrio, nella prima pagina del libro, viene rappresentato dalla parola Death, in inglese “morte”. Si esprime attraverso un rito di passaggio e di iniziazione con riferimenti alla resurrezione di Cristo venendo successivamente trascinato entro una parodia filologica e un vortice plurilinguistico, e alla fine personificato con un tranvestite165, proprio per indicare la sua natura ambigua. È infatti contemporaneamente presa di distanza ma anche recupero di una relazione più vitale con se stessi, con la propria lingua materna, con la comunità di appartenenza, sia paesana che nazionale166.
È il distacco, la presa di distanza che garantisce uno sguardo oggettivo, lontano da un’Italia che appare a distanze stellari, come guardarla dal telescopio167. L’oggettività è privilegio della condizione di dispatriato, parola in cui il prefisso dis non indica semplicemente allontanamento, ma denota una dispersione168, una divisione in più parti. Non si tratta di una cultura che sostituisce un’altra, ma della creazione di un secondo polo culturale169.

Volendone fare una storia, sarebbero due storie incrociate: come da un lato l’esperienza inglese (EN) ha stravolto la mia percezione dell’Italia (IT), e d'altro lato come IT ha stravolto EN170.

L’esperienza stessa dell’emigrazione rientra in una logica traduttoria del trasportarsi altrove, del trasferirsi, del traslocare. Tradurre (Übersetzen) è collocarsi su un’altra sponda culturale, in un altro spazio (Heidegger)171. Più volte Meneghello ritorna sulla polarità che si stabilisce nel processo migratorio tra Paese di appartenenza e Paese di arrivo, percependolo come continuo passaggio, come continua autotraduzione e traduzione di due mondi concettuali e affettivi diversi172. La logica della traduzione non è una logica dell’equivalenza, bensì dell’alterità e della complementarietà.
Tradurre è spostare gli equilibri interni di un testo; è trovare qualcosa che neanche si sapeva ci fosse, è quasi scriverne un nuovo. Riprendendo Benjamin, si potrebbe affermare che originale e traduzione sono articolati l’un l’altro tramite un rapporto di correlazione vitale: la traduzione non è il riflesso dell’originale, ma ne opera il mutamento perché mette in luce e in moto le potenzialità germinative173.
Il concetto di traduzione si può rintracciare in molti punti degli scritti di Meneghello, che sono intrisi di una pluralità di universi linguistici e stilistici provenienti dall’italiano letterario, al regionale e popolare veneto, al dialetto vicentino, all’inglese e anche ad altre lingue europee. Il suo è un linguaggio caratterizzato da giochi metalinguistici, traduzioni reciproche, interferenze sintattiche, lessicali, fonetiche e veri e propri trapianti.

[…] ci sono aspetti quasi metafisici nel tradurre, come se la natura, non soltanto del leggere, ma anche del comunicare, del capire, fosse intimamente intrecciata con la natura del tradurre174.

Meneghello fa della lingua il primo avamposto per creare «una nuova retorica»175. La lingua diviene «parte dell’argomento […], un aspetto importante della polemica contro la retorica, la pomposità, la convenzionalità, lasciatemelo dire, bugiarda della nostra cultura ufficiale»176.
È la sua condizione di dispatriato a rendersi punto di partenza di questo processo: l’allontanamento dalla prosa accademica italiana passa attraverso il contatto con la lingua e la cultura inglesi. Il risultato è un’influenza sostanziale del mondo inglese nel suo stile letterario ironico, denso, «in cui fanno scintille umoristiche e provocano epifanie insperate di senso le “frasi fatte”, la lingua dei proverbi e dei modi di dire»177.
Meneghello assimila diverse sfumature e proprietà stilistiche dalla lingua inglese, innanzitutto quelli che considera i suoi pregi: «Garbo, ironia, Wit»178. È forse proprio l’ironia la componente più endemica della sua scrittura, l’espediente più radicato e riconoscibile del suo stile; anch’essa parte di una scelta culturale e ideologica, sintomo e indizio di un’antiretorica che allontana lo scrittore da una parte della tradizione accademica e letteraria italiana179. Oltre al rapporto tra lingua inglese ed italiana, assistiamo, nelle sue opere, a reciproche interazioni tra italiano e dialetto. Per Meneghello, nei diglotti, accanto a fenomeni di interferenza, c’è anche il continuo insorgere di nuove possibilità espressive date dal rapporto “binario” tra le lingue, ossia da quel continuo oscillare tra lingua nazionale e dialetto. Esse trovano la massima vitalità nella reciproca relazione, segnalando così implicitamente come una delle cause dell’impoverimento della nostra lingua risieda nell’incapacità di mantenere un rapporto vivo con i dialetti180. Perfettamente cosciente dei processi di dissoluzione a cui va incontro il dialetto, l’autore opera in chiave sperimentale la costruzione di un orizzonte “utopico” felice, entro cui dovrebbero costruirsi le relazioni tra la lingua letteraria, la lingua nazionale, l’italiano regionale, il dialetto vernacolare nelle sue varianti cittadine e paesane al di là delle gerarchie di prestigio culturale181.

Capitolo Quarto

La letteratura post-coloniale e della migrazione in Italia

Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da ampi dibattiti sui termini da adottare per riferirsi alla produzione letteraria da parte di 1immigrati di prima e seconda generazione. Gabriella Parati all’inizio della diffusione del fenomeno ha utilizzato il termine “letteratura italofona”, sulla scia della denominazione “letteratura francofona”; per poi adottare i termini migration literature e multicultural literature182. Il termine “letteratura della migrazione” viene utilizzato anche nel sottotitolo di «El Ghibli», la prima rivista di scrittori e scrittrici migranti nata nel 2003.
Lidia Curti, intersecando femminismo e post-colonialismo, utilizza invece l’espressione letteratura diasporica italofona, legando in questo modo la produzione in italiano proveniente da popolazioni originarie delle ex colonie italiane a quella di scrittori provenienti dalle diaspore183. Di stampo sociologico è invece il termine “scritture migranti” utilizzato da Fulvio Pezzarossa prima e Roberto Derobertis poi. Sostituendo il termine “letteratura” con “scritture” ci si muove infatti nella direzione degli studi culturali inserendo queste opere in un corpus di testo e di rappresentazioni simboliche fortemente legato ai cambiamenti sociali nell’orizzonte della globalizzazione.
In ogni caso, è necessario ricordare che qualsiasi definizione di questo fenomeno letterario, anche la più appropriata, è per sua natura riduttiva e in divenire. I termini “scritture migranti” oppure “letteratura della migrazione” rendono senza dubbio omogenei soggetti che provengono da storie, geografie, lingue e culture diverse; d’altro canto, l’etichetta almeno all’inizio ha conferito a scrittori e scrittrici migranti una certa visibilità sul mercato editoriale. Inoltre, può rappresentare un valido contenitore per riferirsi in generale alla letteratura prodotta da soggetti diasporici in Italia, in cui sono centrali le tematiche legate alle migrazioni, al senso di spaesamento e di sradicamento184.
La data che convenzionalmente segna l’inizio della letteratura della migrazione in Italia è il 1990, anno in cui vengono pubblicati i testi autobiografici del senegalese Pap Khouma, in collaborazione con Oreste Pivetta, Io venditore di elefanti185; del tunisino Salah Methani, Immigrato186, in collaborazione con Mario Fortunato e del marocchino Mohamed Bouchane, Chiamatemi Alì187, a cura di Carla De Girolamo e Daniele Miccione.
L’esperienza autobiografica, al tempo stesso testimonianza di vite individuali e collettive, è centrale in questi scritti, che si propongono di raccontare l’impatto con l’Italia e di soddisfare in qualche modo la curiosità degli italiani di apprendere qualcosa dei migranti nel proprio Paese188.. La prima fase della letteratura della migrazione è stata caratterizzata da un interesse socio-antropologico diffuso che ha favorito la creazione di uno spazio editoriale e la pubblicazione delle prime autobiografie collaborative, anche se persisteva ancora una forte resistenza nel considerare i temi trattati come universali e degni di una reale considerazione estetica o letteraria189.
Gli anni che vanno dal 1995 al 2000, invece, hanno preparato il terreno per una fase più propriamente letteraria che si aprirà alla fine del millennio. Gli scrittori si configurano ancora come di prima generazione e le tematiche sono quasi esclusivamente legate all’esperienza della migrazione, tuttavia si iniziano a delineare poetiche più marcate e temi diversificati190. Nel 1995 viene istituito il Concorso Letterario Eks&tra per scrittori migranti, da cui emergono autori che successivamente domineranno il panorama della letteratura della migrazione e post-coloniale in Italia. La prima edizione premia infatti il poeta albanese Gëzim Hajdari e la scrittrice brasiliana italiana Christiana De Caldas Brito, con un racconto che diventerà un cult della letteratura della migrazione, Ana de Jesus191. Protagoniste incontrastate dei suoi racconti sono le donne immigrate, il senso del loro isolamento e lo sfruttamento a cui sono soggette frequentemente anche le donne italiane.

«La mia è stata un'infanzia senza televisione. Potevo ascoltare le storie ad occhi chiusi. L'immaginazione lavorava per costruire le scene delle storie e per creare un corpo ai personaggi. L'ascolto è stato fondamentale per la mia scrittura. Difatti, molti dei miei racconti mostrano l'importanza della tradizione orale: c'è sempre una nonna (una doppia madre) che racconta storie, o ci sono i segreti di mestieri che passano da una generazione all'altra attraverso la comunicazione orale. Molti dei miei racconti partono dal ricordo di quartine popolari ascoltate in Brasile quando ero piccola»192.

Caldas De Brito si avvale di una lingua ibrida, un “portuliano193”, un misto di italiano e brasiliano: nel testo Ana de Jesus il monologo di una collaboratrice domestica rende percepibile il suo particolare accento e modo di parlare, in maniera quasi “udibile” per il lettore. Questa fusione linguistica, il cosiddetto “italiano di migranti”, rappresenta un fenomeno innovativo nella letteratura italiana contemporanea.
L’inserimento di parole straniere e di strutture sintattiche non-italiane è infatti un elemento caratterizzante anche delle opere di Pap Khouma, Kossi Komla-Ebri, Tahar Lamri o Susanne Portmann, originari rispettivamente del Senegal, del Togo, dell'Algeria e della Svizzera. Essi, utilizzando il code-switching, ossia il passaggio da una lingua ad un'altra, tentano di descrivere in maniera verosimile l’ambiente linguistico in cui si svolge la trama delle loro storie194.
Sempre nel 1995, vengono premiati per il concorso Eks&tra il racconto Io marocchino con due kappa195 del siriano Yousef Wakkas, che scrive dal carcere (e quindi da una posizione di marginalità ancora più estrema) e quello dell’algerino Tahar Lamri: Solo allora, sono certo potrò capire196, incentrato sull’impossibilità per i migranti di fare ritorno alla propria terra d’origine.
Negli anni successivi inizia ad emergere una produzione letteraria proveniente dall'Est Europa. Di particolare rilevanza risulta l’apporto di Jarmila Ockayová, scrittrice slovacca immigrata in Italia nel 1974 che nella seconda metà degli anni Novanta pubblica tre romanzi in lingua italiana tutti pubblicati da Baldini&Castoldi: Verrà la vita e avrà i tuoi occhi197, L’essenziale è invisibile agli occhi198 e Requiem per tre padri199. Sono testi fortemente introspettivi, nei quali temi dello spaesamento e della diversità sono legati a una condizione profondamente esistenziale200.
Alla fine degli anni Novanta si apre una nuova fase della letteratura della migrazione. Si affaccia in quegli anni sulla scena letteraria Jadelin Mabiala Gangbo, nato in Congo e trasferitosi in Italia all’età di quattro anni. Egli fa parte di quella “seconda generazione” di migranti per cui l’italiano costituisce effettivamente la prima lingua.
Iniziano poi a proliferare le riviste letterarie incentrate quasi esclusivamente sulle scritture migranti e postcoloniali. Nel 1994 era già nata «Caffè»; nel 1997, fondata da Armando Gnisci, nasce la banca dati del BASILI – Banca Dati degli Scrittori Immigrati in Lingua Italiana – che raccoglie informazioni su testi scritti da immigrati e una rassegna critica sulle loro opere. Nel 2000 nasce la rivista online «Sagarana», nel 2003 «El-Ghibli»; nel 2006 infine «Scritture migranti. Rivista di scambi interculturali» presso il Dipartimento di Italianistica dell’università di Bologna, e «Trickster», Rivista del Master in Studi Interculturali» dell’università di Padova201.
Il nuovo millennio, come già anticipato, segna una fase più diffusamente e marcatamente letteraria: gli autori occupano in maniera autorevole la scena culturale e si segnalano, con l’avvento delle seconde generazioni, la presenza di nuove tendenze che includono lo sviluppo di una produzione letteraria albanese-italiana e di una fase letteraria italiana più propriamente post-coloniale. Personalità di spicco in questa fase, sono il brasiliano Julio Monteiro Martins202, la camerunense Geneviève Makaping, il togolese Kossi Komla-Ebri, l’algerino Amara Lakhous203.
La letteratura degli scrittori albanesi in lingua italiana è senza dubbio uno dei filoni più interessanti nell’ambito della letteratura post-coloniale e della migrazione. Il rapporto tra Italia e Albania ha radici antiche, antecedenti alle ondate migratorie provocate dal crollo del regime comunista nel 1991. Un'importante testimonianza e presenza letteraria è costituita da Gëzim Hajdari204, politico e giornalista che, dopo aver denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni del regime di Hoxha, è stato costretto, nell'aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese; ma anche da Ornela Vopsi205, Ron Kubati206, Elvira Dones e Arnilda Ibrahimi207.

4.1. Igiaba Scego e la letteratura post-coloniale

Gli studi post-coloniali non si limitano a indagare i rapporti tra un'ex-madrepatria e le sue ex-colonie, bensì riflettono le relazioni di potere che i sistemi coloniali hanno posto in essere e, in un certo senso, le decostruiscono. Esiste un “rapporto privilegiato” tra una nazione e i territori un tempo da essa colonizzati, e questo aspetto si riflette in Italia in un corpus letterario quasi esclusivamente prodotto da donne provenienti dalle ex-colonie in Africa che, provenendo da Paesi differenti, hanno chiaramente un background culturale diverso fra loro208.
Già nel 1990 la scrittrice italoetiope Maria Abbebù Viarego aveva pubblicato un testo memorialistico in cui era descritto il modo in cui veniva percepita la “nerezza” nella Torino degli anni Sessanta209. Nel corso degli anni Novanta, emergono diverse figure letterarie, tra le quali Ribka Sibhatu, Shirin Ramzanali Fazel, Martha Nasibu. Nei loro tesi sono enfatizzate la componente orale della narrazione e quella di ricostruzione storica degli anni della colonizzazione italiana210.
Altre scrittrici che verranno in seguito, come Igiaba Scego, Ubax Cristina Ali Farah e Gabriella Ghermandi, si differenziano dalle precedenti in quanto rappresentano l'avvento delle seconde generazioni (Scego e Ali Farah) e/o unioni miste (Ali Farah e Ghermandi). Ciò significa che per loro l’italiano rappresenta la prima lingua e che per alcune l’Italia è il Paese di nascita211.

Il nostro incubo si chiamava dismatria. Qualcuno a volte ci correggeva e diceva :”in Italia si dice espatriare, espatrio, voi quindi siete degli espatriati”. Scuotevamo la testa, un sogghigno amaro, e ribadivamo il dismatria appena pronunciato. Eravamo dei dismatrati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia212.

Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974. È una degli undici figli sparsi in tutto il Mondo di due somali (il padre è Alì Omar Scego, ex Ministro degli esteri somalo) espatriati nel 1969 dopo il golpe di Siad Barre213. Fino all’età di undici anni, ha trascorso la sua vita tra l’Italia e la Somalia, passando l’anno scolastico a Roma e le vacanze estive a Mogadiscio, nella casa di famiglia.
Dopo la laurea in Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, ha svolto un dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università di Roma Tre e attualmente si occupa di scrittura, giornalismo e di ricerca incentrata sul dialogo tra le culture e sulla dimensione della transculturalità e della migrazione.
Collabora con molte riviste che si occupano di migrazioni e di culture e letterature africane tra cui «Latinoamerica», «Carta», «El-Ghibli», «Migra» e con «la Repubblica», «Il Manifesto», «L'Unità» e «Internazionale»214.
Ha spesso espresso il desiderio di non venire etichettata in nessun modo, tantomeno come “scrittrice migrante”, data la sua convinzione che “gli scrittori migranti, che provengono da altri parti del mondo, non vogliano limitarsi a scrivere soltanto di immigrazione”215.
Nel 2003 ha vinto il concorso letterario Eks&Tra per scrittori migranti con il suo racconto Salsicce 216 e ha pubblicato il suo libro d’esordio, La nomade che amava Alfred Hitchcock217, un testo autobiografico in cui racconta in prima persona la storia di sua madre, Kadija, nata nel 1938, la sua infanzia da nomade, i giochi, il rapporto con i genitori, la cultura somala e le vicende politiche che l'hanno portata, come tanti coetanei, a cercare in un Occidente ricco pace e serenità. Il libro è stato edito da Sinnos nella collana I Mappamondi. Sempre da Sinnos, nel 2004, è stato pubblicato il suo primo romanzo, Rhoda218, nel quale si narrano le tristi storie di alcune donne immigrate in Italia. Nel riaffiora la Somalia “martoriata” dei genitori dalla guerra e dalla violenza. Sebbene la protagonista costituisca una rappresentazione in un certo modo stereotipata della donna di colore immigrata, prostituta, le altre donne italosomale di prima e seconda generazione presenti nella narrazione riescono a costruire un destino positivo attraverso l'integrazione.
Nel 2005 pubblica insieme a Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi e Laila Wadia, Pecore nere. Quattro donne si raccontano e raccontano la propria identità a cavallo tra il nuovo e la tradizione. Si tratta di otto racconti, due per autrice, in cui con sottile autoironia si descrive l’incontro-scontro tra due mondi. Senza percorrere le vie del sentimentalismo e del vittimismo, la raccolta si propone di sfatare l’immagine dello straniero comunemente inteso, svelandone fragilità e insicurezze. Il leitmotiv della raccolta è il colore della pelle e i racconti si focalizzano in situazioni differenti proprio sul tema dell’identità, reso problematico anche da profonde connotazioni ambientali, linguistiche e culturali.
Dopo la pubblicazione di Amori bicolori. Racconti219 e Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano220, scrive Oltre Babilonia221 . Nel testo, si avvicendano in otto capitoli cinque protagonisti, quattro donne e un uomo, di cui con successione fissa si va narrando, di volta in volta, un pezzo di storia che si interseca con quella degli altri. Tra Roma, la città dove sono stati tutti i personaggi e vivono quattro di essi e l’Argentina, la Somalia e la Tunisia si dispiegano e incastrano, poco a poco, le vicende dei protagonisti. Emerge l’importanza che l’autrice conferisce alle parole, forse proprio perché influenzata oltre che dalla tradizione letteraria italiana anche dalla tradizione orale somala. Inoltre, la memoria si rende protagonista principale del processo di ricostruzione di identità, anche se comporta dolore, come accade ai personaggi del romanzo222.
Le opere della Scego, non prive certamente di riferimenti biografici, si caratterizzano per il delicato equilibrio tra le sue due realtà culturali di appartenenza. Nei suoi racconti, la figura femminile è al centro della narrazione e si tratta spesso di donne che ricercano la propria identità, analizzando il valore della propria femminilità all’interno della società attuale. Le altre tematiche principali sono costituite dalla diaspora, dalla migrazione e dal rapporto madre-figlia.
Peculiare è la relazione tra le manifestazioni corporee e la migrazione: in Salsicce, la repulsione e il disgusto corporale che prova la protagonista musulmana davanti alla carne di maiale è connesso alla riflessione sulla sua identità culturale; nel racconto Dismatria, invece, il conflitto esistenziale si manifesta a partire dal confronto tra due femminilità fortemente differenti: da un lato la madre, rappresentazione della tradizione somala, dall’altro Angelique, un transessuale che incarna la complessità e la varietà del mondo contemporaneo223.
Il recente La mia casa è dove sono224 è un libro di matrice autobiografica, a partire dall’invocazione poetica dell’incipit “Sheeko sheeko sheeko xariir… Storia storia oh storia di seta…225” che rinvia a quello delle fiabe somale raccontate dalla madre nomade. Il ricordo di questa ritualità narrativa torna alla memoria dell’autrice che sta iniziando a scrivere il suo romanzo. Il racconto prende l’avvio in una scena familiare che si svolge nella cucina del fratello, a Manchester. Davanti a una tazza fumante di tè, la scrittrice si ritrova a parlare con lui, col cugino e col nipotino. In quel frangente, i tre personaggi rappresentano un piccolo campione di famiglia somala costretto alla diaspora in Europa, a causa della guerra civile scoppiata nel 1991. I capitoli del romanzo prendono, dal secondo al settimo226, il titolo da alcuni luoghi che per Igiaba rivestono insieme un significato storico e privato227.

A Roma la gente corre sempre, a Mogadiscio la gente non corre mai. Io sono una via di mezzo tra Roma e Mogadiscio: cammino a passo sostenuto228.

I protagonisti del racconto Dismatria, nella raccolta Pecore Nere del 2005, sono i membri di una famiglia somala da anni residente a Roma. Essi vivono con la speranza quasi ossessiva di un possibile ritorno a casa, tanto che continuano negli anni a conservare tutto in delle valigie diventate dei sostituti degli armadi. Si sentono al posto “sbagliato”, fuori luogo, in sospeso:

Anch'io naturalmente avevo delle valigie. Ma le odiavo. Le trattavo male. Le cambiavo spesso. È che le valigie mi esasperano. Avrei voluto un solido e robusto armadio. Avrei voluto tenere le mie cose meno in disordine. Avrei voluto sicurezza. Invece a casa mia la parola armadio era tabù. Come del resto erano tabù la parola casa, la parola sicurezza, la parola radice, la parola stabilità229.

Per gli immigrati di prima e seconda generazione il valore dell’alloggio diventa evidente, in quanto crea stabilità e sicurezza necessaria per mettere radici in un Paese nuovo230. Il desiderio di tornare in Patria o meno è una questione fondamentale che distingue la prima generazione di immigrati, generalmente più speranzosi in un futuro nella propria terra, e la seconda generazione, come testimoniato da Scego nel suo lavoro. La narratrice di Dismatria si trova infatti divisa tra le culture di Roma e della Somalia e per lei l’instabilità è simboleggiata dalla valigia, elemento a cui invece sembra essere attaccato il resto della famiglia, che sceglie di tenere racchiusi tutti i propri beni. Vorrebbe possedere un “robusto armadio”231, definito appunto un tabù per i parenti, come le altre parole che esprimono stabilità e permanenza. A questo proposito sembra quasi che la narratrice si ribelli verso la generazione precedente, perché ritiene le valigie la metafora dell’angoscia e della paura provata dai suoi familiari232.

Ci guardammo tutti. Sorriso globale. Non lo sapevamo, ma avevamo un’altra matria233.

Sempre nella raccolta Pecore Nere troviamo il racconto Salsicce, che narra la storia di una ragazza somala di Roma scappata con la famiglia dal proprio Paese per fuggire dalla guerra civile. Una mattina, apparentemente senza motivo, compra cinque chili di salsicce dalla drogheria vicino casa.

Il racconto Salsicce l’ho scritto in un momento di rabbia assoluta perché il controllore dell’autobus mi ha trattato talmente male che io sono tornata a casa distrutta. Allora ho riflettuto molto su che cosa significhi essere italiani e essere somali. Io non mi sento tuttora né somala né italiana, sono tutte e due, in un certo senso tutto è scaturito da un mio problema di identità che ho trasposto sulla carta. (…) Viviamo in un Mondo dove devi essere etichettato, catalogato, allora quando la protagonista si trova davanti questo dilemma, a volte si sente niente, vorrebbe essere niente per non dover affrontare i problemi che una doppia origine può causare. Preferirebbe autoannullarsi, smaterializzarsi piuttosto che vivere così, in certi momenti sente il desiderio di diventare invisibile234.

La stranezza dell’acquisto non risiede ovviamente nell'oggetto acquistato, ma nel soggetto compratore di salsicce: una musulmana sunnita, che guarda il pacco e si chiede:

Ma ne vale veramente la pena? Se mi ingoio queste salsicce una per una, la gente capirà che sono italiana come loro? Identica a loro? O sarà stata una bravata inutile? È questo che voglio veramente?235.

Poi si rende conto che la sua ansia è cominciata con la legge Bossi-Fini: "A tutti gli extracomunitari che vorranno rinnovare il soggiorno saranno prese preventivamente le impronte digitali236”. Inizia così a interrogarsi sulla sua reale identità:

Ed io che ruolo avevo? Sarei stata un'extracomunitaria, quindi una potenziale criminale, a cui lo Stato avrebbe preso le impronte per prevenire un delitto che si supponeva prima o poi avrei commesso? O un'italiana riverita e coccolata a cui lo Stato lasciava il beneficio del dubbio, anche se risultava essere una pluripregiudicata recidiva? Italia o Somalia? Dubbio. Impronte o non impronte?237.

Questa legge aveva risvegliato un demone assopito che le aveva sempre creato scompensi in quanto insicura della propria identità:238

Le metto, senza guardarle, nel piatto blu. La bellezza del piatto ha messo in luce la bruttezza di queste salsicce lessate male. Mi siedo, mi rialzo per prendere un bicchiere d'acqua, mi risiedo. Le gambe non smettono di ciondolare e il polso di tremare. Infilzo con la forchetta la salsiccia più piccola, l'avvicino al naso. AGHHHH, puzza! Chiudo gli occhi e avvicino l'immondità alla bocca. Comincio a sentire un sapore acido come vomito. Allora è questo il gusto della salsiccia, vomito? Poi qualcosa mi bagna il petto ed è allora che apro gli occhi. Con stupore noto di aver vomitato la colazione della mattina (…)239.

Il vomito rappresenta qui un modo per riappropriarsi di se stessi, dato il grosso tabù che la carne di maiale costituisce per gli islamici. Mangiare il maiale è abbandonare la propria tradizione, non mangiarlo invece costituisce un vero e proprio legame con la cultura musulmana.

Credo di essere una donna senza identità. O meglio con più identità. [...] Vediamo un po?. Mi sento somala quando: 1) bevo il tè con il cardamomo, i chiodi di garofano e cannella; 2) recito le preghiere quotidiane verso la Mecca; 3) mi metto il dirah [abito femminile somalo]; 4) profumo la casa con l’incenso o l'unsi [miscela di incenso e altri profumi]; 5) vado ai matrimoni in cui gli uomini si siedono da una parte ad annoiarsi e le donne dall’altra a ballare, divertirsi, mangiare... insomma a godersi la vita; 6) mangio la banana insieme al riso, nello stesso piatto, intendo; 7) cuciniamo tutta quella carne con il riso o l’angeelo [focaccia]; 8) ci vengono a trovare i parenti dal Canada, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall’Olanda, dalla Svezia, dalla Germania, dagli Emirati Arabi e da una lunga lista di stati che per motivi di spazio non posso citare in questa sede, tutti parenti sradicati come noi dalla madrepatria; 9) parlo in somalo e mi inserisco con toni acutissimi in una conversazione concitata; 10) guardo il mio naso allo specchio e lo trovo perfetto; 11) soffro per amore; 12) piango la mia terra straziata dalla guerra civile; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte240!

4.2. Un Paese mai nominato: l’Iran di Hamid Ziarati

Hamid Ziarati è nato a Teheran nel 1966 e si è trasferito nel 1981, per motivi di salute, a Torino, dove vivevano la sorella e il fratello, entrambi medici. Partito dall’Iran a quindici anni, ha lasciato la sua terra alla condizione di non portare denaro con sé.
In Italia ha conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Torino e ha costruito una famiglia che definisce metà italiana e metà iraniana241.

Sono giunto in Italia quindicenne, età in cui ci si forma e si ha la mente molto più duttile, più aperta per accettare, condividere e apprezzare le diversità e questo valeva sia per me sia per gli italiani che frequentavo, i miei compagni di scuola e di giochi. Non ho avuto difficoltà a integrarmi perché nel 1981, quando sono arrivato in Italia, essere stranieri era una novità per la società italiana e ci si accoglieva a braccia aperte e gli stranieri non erano ancora diventati un problema o un peso insostenibile ma erano invece necessari come forza lavorativa per le incombenze più umili. Io mi sento integrato a tutti gli effetti anche se è sempre l’interlocutore a ricordarmi che sono un apolide in quanto sono iraniano per gli italiani che mi conoscono da poco e mi chiedono spesso al primo incontro se parlo l’italiano, mentre per tutti gli iraniani che mi capita di conoscere sono italiano in quanto dissacratore del passato glorioso dell’Iran e fiducioso di riporre le mie speranze per un futuro migliore nella la mia nazione nativa. Non nascondo il mio desiderio di ritornare in Iran per visitarlo in lungo e in largo e passarci un lungo periodo ma credo che i sentimenti mi obblighino a stare nel luogo dove ho coltivato i miei affetti e questo luogo è l'Italia che tra l'altro è anche la patria di mio figlio242.

Il suo primo romanzo, Salam Maman del 2006243, narra la storia di una famiglia iraniana che si snoda nella Teheran degli anni Settanta sotto il regime dispotico dello Scià Reza Pahlavi, successivamente sotto la democrazia teocratica di Komeini, passando per la rivoluzione costata migliaia di giovani vite. Il successo di questo romanzo ha alle spalle in realtà un premio ricevuto nel 1995 per il racconto Un giorno da stella cadente244.
Il secondo libro di Ziarati è Il meccanico delle rose245, in cui il protagonista si nasconde letteralmente tra le righe. È presente in non più di una frase del primo capitolo, e negli altri fa la sua comparsa a tempo debito. Eppure al centro del romanzo c’è lui, protagonista assente, che proprio restando ai margini delle vite degli altri acquista una paradossale centralità. La sua storia è raccontata attraverso le persone che sono state importanti per lui, nell’Iran dagli anni Venti fino ai giorni nostri: il padre, il cugino, la moglie, la figlia, una donna amata.
Akbar, che vive in un paese ai bordi del deserto dove si estrae la migliore essenza delle rose di Persia, è un capofamiglia religioso e rispettato e trova un modo tutto suo per rimediare ai torti del destino che gli ha rubato un figlio. Khodadad è appena un ragazzino quando fugge di casa in cerca di se stesso, nei giorni dell’anniversario del martirio dell’Imam Hossein e dei suoi settantadue seguaci. Donya ha conosciuto la felicità e la disperazione, prima di andare in sposa a un uomo che ha il doppio dei suoi anni. Mahtab stava per laurearsi in medicina e iniziare una nuova vita, quando è incappata nei Guardiani della Rivoluzione. Laleh ha il nome d'un fiore, quello del martirio, e dal letto di un ospedale, in un lucido delirio, tira inconsapevolmente i fili di tutte le storie. Sullo sfondo, dietro le tante figure, resta un Paese riconoscibilissimo ma mai nominato, per rispetto di chi, vivendo nei suoi confini, non può nominarlo.

Il Paese mai nominato rende in un certo senso universale la storia del protagonista. Dal contesto, dalle tradizioni raccontate e dalle vicende storiche, appare chiaro di quale Paese stiamo parlando. L'idea di non nominarlo mai, scelta che ho compiuto in piena libertà e, per così dire, con le spalle coperte, è legata al desiderio di essere solidale con gli autori e gli artisti iraniani di quest'ultimo trentennio, a partire cioè dalla fondazione di uno dei regimi più sanguinari e retrogradi che la storia iraniana abbia mai conosciuto fino a oggi – e di certo molto peggiore della monarchia che l'ha preceduto –, un regime intriso di un ideologismo fatto di fede e di superstizioni blasfeme che incitano continuamente al martirio e al diritto di uccidere. La mia è stata una forma di autocensura, leggera e insignificante, ma non sul piano simbolico246.

L’ultimo romanzo di Ziarati ha per protagonista, esattamente come accade nel primo, un ragazzino, Darioush. In Quasi due247 racconta di come sia facile essere bambini a Teheran - e non solo - e poi come sia più difficile, a volte, smettere di esserlo248.
Darioush non fa che combinare guai, nel tentativo maldestro d’imitare i suoi film preferiti, quelli che ormai circolano quasi clandestinamente in Iran. Compagno inseparabile è Zal, che sarebbe disposto a seguirlo in qualsiasi impresa, persino sulla prima linea del fronte. È così che i due si ritrovano in mezzo alle bombe vere, quelle irachene, dopo aver tanto giocato alla guerra. Ed è in questo modo che nella loro testa i martiri bambini di cui parla l’Ayatollah possono prendere il posto degli eroi del cinema. Con la sua scrittura rapida, vivida, tutta scene, capace di seguire un’esistenza nei suoi ritmi vitali, Hamid Ziarati racconta l’energia dei ragazzini, la spensieratezza, l'incoscienza, ma anche lo smarrimento di fronte alla cieca chiusura dell'integralismo religioso249.

- Il sapere è pericoloso - . - Se lo è veramente, perché vuoi mettermi in pericolo? – Gli chiedo io. – Perché? – Prima mi chiede e poi mi risponde: - Perché una vita senza il sapere è come un albero senza le foglie, non fa frutti, non fa ombra, è solo un semplice e insignificante pezzo di legno250.

Salam, Maman è un romanzo del 2006, il primo di Hamid Ziarati che, attraverso le vicende di una famiglia iraniana con quattro figli, narra gli anni prima e dopo la rivoluzione del 1978.

Il libro è in parte autobiografico e in parte ispirato a persone che ho conosciuto e con le quali ho condiviso quegli anni, e in parte, ovviamente, è pura invenzione letteraria. […] Però la figura più reale e autobiografica di tutto il libro è quella di Maman, a cui è dedicato anche il titolo del libro. Il libro è nato da una mia esigenza di lasciar testimonianza a mio figlio, ancora in grembo, di chi fosse stata sua nonna, mancata nel 1998 dopo tre anni di coraggiose cure per combattere la leucemia, e raccontargli quanta lungimiranza aveva quella donna semianalfabeta che a modo suo ha salvato la vita ai propri figli e ha dato a tutti noi la possibilità di istruirci e di vivere lontani dalle intemperie della Storia recente. È lei il perno principale di tutto il romanzo, unica figura di buon senso in un crescendo di follia collettiva, in contrasto persino con il protagonista, l'occhio ragazzino di Alì narrante, il punto di vista ufficiale. È un punto di vista, quello di Maman, non esplicito, sotterraneo. Il suo è uno sguardo lucido, strapazzato dalla storia, mortificato da un'irrazionalità ingovernabile anche per lei, donna che sapeva governare su tutto. È lei il personaggio principale di tutta la storia, è grazie a lei che il racconto prosegue dalle prime battute fino alle ultime righe251.

La voce narrante appartiene al terzogenito della famiglia, Alì, che, con i suoi occhi ingenui e le sue parole racconta alcuni degli eventi più significativi e drammatici che hanno segnato il passaggio dal regno autocratico e nazionalista dello Shah Mohammed Reza Pahlavi alla rivoluzione ispirata dallo Ayatollah Komehini.

Puyan la rivoluzione la voleva fare perché ci credeva veramente. In che cosa credeva? Ci avevano sempre insegnato, a casa, alla moschea, sui libri, alla radio, nei film e nelle favole raccontate per farci addormentare, che ci doveva essere una maggiore giustizia sociale252.
Erano giorni in cui alcuni giovani universitari dai lunghi capelli e dai pantaloni a zampa d'elefante esternavano tutta la loro conflittualità che, non potendo esprimere in famiglia (famiglia in apparenza patriarcale ma in sostanza matriarcale) riversavano contro colui che si proclamava padre di tutta la nazione, lo Scià degli Scià di Persia, Shahansha Mohammed Reza Pahlavi253.

Attraverso dialoghi molto semplici, spesso tra ragazzini, Ziarati descrive efficacemente il succedersi storico degli eventi, le speranze nutrite nella Rivoluzione e il clima politico, sociale, culturale di quegli anni.

- Ma per cosa manifestano?
- Come per cosa? Manifestano perché ci sono pochi soldi e perché non c’è lavoro per un sacco di gente. Manifestano perché i prezzi salgono mentre i soldi guadagnati restano sempre gli stessi. « Crisi economica, disoccupazione dilagante e inflazione incontrollata », ho pensato tra me e me, ricordando i vocaboli che avrebbe usato Puyan e i suoi amici se si fossero ritrovati a casa nostra a studiare e discutere254.

Nel corso del romanzo, tutti i figli, meno che Alì, lasciano il Paese per cercare in Occidente la libertà e una vita senza paura. La prima ad abbandonare l’Iran è Parì, che successivamente viene raggiunta dalla figlia più piccola Parvin negli Stati Uniti.

- [… ] Non voglio che tu o Parvin facciate la vita che ho fatto io, e neanche i tuoi fratelli dovranno fare il lavoro che ha fatto tuo padre. [… ]
- Maman, qui non ho nessuna possibilità di continuare gli studi – [… ]255

Puyan, invece, si trasferisce a Londra dove svolgerà la professione di fotografo con incarichi anche molto importanti, come quello di fotografare lo Ayatollah Khomeini. La sua partenza sarà successiva all'arresto a causa di una contestazione allo Shah e alla strage di Piazza Djaleh, a cui ha assistito con Alì rimanendo ferito.

Il signore accanto a noi non si sentiva affatto bene. Era inutile chiamarlo. Aveva la testa spappolata, rivolta, per fortuna, dall'altra parte256.
La rigogliosa piazza Djaleh, che pochi minuti prima era gremita di gente viva che sfidava il potere a colpi di slogan, era ricoperta di sangue e di cadaveri [… ]257

Anche la tanto sperata Rivoluzione porta in sé solo nuove privazioni e repressioni, deludendo ancora una volta le aspettative del popolo iraniano:

Lo sanno anche i bambini che la Rivoluzione Culturale di Khomeini non è altro che un sopruso e un pretesto per poter procedere liberamente alle epurazioni, come ha già fatto con l'esercito, col la scusa del colpo di stato258.

Intervista ad Hamid Ziarati

S.G.: Nel tuo primo romanzo, Salam, Maman, parli del ruolo e dell’importanza della cultura e del sapere. Qual è secondo te oggi il ruolo dell’intellettuale, come è cambiato rispetto al passato e quali sono le funzioni che può assolvere nella società contemporanea?

H.Z.: Domanda impegnativa… Quale il ruolo dell’intellettuale? Diciamo che rispetto al passato c'è la possibilità di una visibilità decisamente superiore, grazie ai mezzi di informazione, innanzitutto internet e ai tanti canali digitali che si sono sviluppati negli ultimi anni. Questo aumento di possibilità di essere visibili va di pari passo a un aumento del numero di intellettuali o pseudo-intellettuali. Da una parte è un vantaggio che ci siano tante voci, dall’altra parte lo svantaggio è che ci sono anche tantissime voci inutili di intellettualoidi che hanno un’opinione su qualsiasi cosa, anche se spesso e volentieri è fondata sull’improvvisazione e dell’argomento non sanno assolutamente niente. Che ruolo può giocare oggi l’intellettuale a livello sociale questo non saprei dirtelo, mi è difficile comprendere anche che ruolo abbia giocato nel passato; c’è da dire che ci sono alcuni, pochi fiori, in un campo di grano, che colpiscono e lasciano il segno, e ahimè quei pochi che colpiscono ci si rende conto di chi sono stati a distanza di anni. Diciamo che c’è un setaccio che appunto seleziona gli intellettuali, ovvero il tempo e la storia. Chiunque abbia pubblicato un libro, scritto un articolo, qualsiasi cosa, anche minima, si considera intellettuale o esperto in tutte le materie. Spesso e volentieri dietro non c’è niente. Mi sono sempre rifiutato di andare in video, o in televisione, preferisco andare nelle scuole piuttosto che nei festival, perché sono preparato su un argomento, sugli altri non me la sento di esprimere un’opinione. Se non conosco una cosa evito. Spesso e volentieri abbiamo gente che fa tutto il contrario.

S.G. : A noi occidentali, negli ultimi anni, viene trasmessa un’immagine del tuo Paese, l'Iran, prevalentemente grazie al lavoro intellettuale. Ad esempio, un film iraniano del 2012, dal titolo Una separazione, ha vinto L’orso d’Oro e l'Oscar come miglior film straniero. L’Iran che appare in questo film, secondo te, rappresenta la realtà? Ad esempio, si vede una famiglia molto “occidentale”. Rispecchia in qualche modo il Paese che hai lasciato?

H.Z.: Allora, se guardi i film degli anni Settanta, prima della Rivoluzione in Iran, la società iraniana borghese, medio-borghese viveva all’occidentale. Ed è simile a quello che vediamo adesso, in quella famiglia di “Una separazione”, quella famiglia borghese, se togli il velo e i problemi sociali che appaiono di sfuggita nei dialoghi, perché altrimenti sarebbero censurati. Se fai attenzione, il padre e la figlia hanno una discussione su una parola e lui dice: “in persiano si dice così” e la figlia: “ma la maestra me lo segnerà come errore” e il padre risponde che quella è una parola araba, “rispondi così anche se ti mette un voto più basso, è persiano”. Ecco, questi sono stati i cambiamenti fondamentali nella società iraniana, rispetto a prima della rivoluzione. Si vede chiaramente che siamo passati dalla padella alla brace. Avevamo una dittatura, e ora abbiamo una dittatura ancora più feroce. A livello politico, prima della rivoluzione c’era una forte repressione, dopo la rivoluzione, oltre alla repressione politica, c’è anche quella sociale. Mentre la figura della donna prima della rivoluzione aveva raggiunto certi livelli nel diritto di famiglia o del lavoro, dopo la rivoluzione sono state completamente depennati. Il diritto all’eredità delle figlie è stato depennato, ad esempio. Ti ricordo che Shirin Ebadi, nostro Premio Nobel per la pace, prima della rivoluzione, era un giudice. Dopo la rivoluzione in Iran le donne non possono essere giudici, al massimo avvocati. Per non parlare dell’obbligo del velo, del permesso ai genitori o tutori per poter espatriare. Ecco, la società iraniana negli ultimi trent’anni vive in modo schizofrenico tutto questo: all’interno delle mura domestiche ha una certa vita, al di fuori deve adeguarsi al regime, come hai visto nel film. Vedi come si vestono, ad esempio. Ricordo un libro, ad esempio, in cui una ragazza, per protestare, diceva “io devo truccarmi da prostituta. L’unica cosa che mi hanno lasciato per protestare è il mio viso e io questo viso devo truccare per dimostrare che non sono d’accordo con quello che mi impongono”.

S.G.: Infatti nel film è la moglie a voler abbandonare l’Iran, tanto che da questo scaturisce la separazione, probabilmente perché è la sua figura di donna a risentire maggiormente della situazione di disagio provocata dal regime.

S.G.: Un altro riferimento che mi è venuto in mente leggendo Salam, Maman è quello alla Satrapi, perché il protagonista, come anche del tuo ultimo romanzo, è un ragazzino. Mi ha colpito infatti questo linguaggio che utilizzi, molto ironico. Affronti i temi drammatici e storici con gli occhi di un bambino, ricordandomi i disegni della Satrapi e Persepolis.

H.Z. : Io e Satrapi siamo coetanei, abbiamo vissuto più o meno l’Iran negli stessi anni, io sono andato via nell'81, lei credo „82, „83. Quindi abbiamo vissuto lo stesso periodo storico. Lei apparteneva sicuramente a una famiglia più ricca rispetto alla mia, ma livello sociale e culturale abbiamo avuto più o meno le stesse esperienze. Tutta quella generazione lì ha vissuto tutto quanto come un gioco ed è forse per questo che riusciamo a ironizzare sul quel periodo, mentre la generazione precedente o successiva non ha vissuto la rivoluzione in un’età in cui facevi fatica a capire i cambiamenti. Credo sia questo il denominatore comune dei nostri lavori.

S.G.: Ultima domanda. Cosa è cambiato dal primo romanzo all’ultimo, Quasi due, del 2012? Di cosa tratta?

H.Z.: Mentre nel primo romanzo un bambino di sei sette anni cresce fino a quattordici anni, nel terzo parlo di un quattordicenne che vive la rivoluzione. Tutto il primo capitolo è concentrato sull’invasione da parte dell’Iraq nel settembre del 1982. Volevo raccontarlo perché, per tutti gli anni in cui ho vissuto in Italia, quello che ho letto sui libri e suoi giornali parlava di questi ragazzini che andavano a farsi ammazzare durante la guerra in Iran e Iraq, che erano tutti degli esaltati a livello ideologico. In realtà, c’erano tanti che, sì, subivano il lavaggio del cervello e tento di raccontarlo nel romanzo. E volevo raccontare di quel primo gruppo che nei primi due anni della guerra aveva vissuto una vita completamente diversa rispetto a quello che è avvenuto dopo la rivoluzione. Avevano la testa piena di immagini di eroi, di film americani, europei ed asiatici. Eroi immortali che potevano fare la differenza e che facevano la differenza, colpiti da mille pallottole, ma che alla fine riuscivano a sopravvivere al nemico. E soprattutto il titolo, “Quasi due”, deriva, dal fatto che cerco di raccontare quella parte della vita in cui non si è più bambini ma non si è neanche adulti, si è una via di mezzo. Ed è un “quasi due” che lui vive come protagonista, un “quasi due” che vive con il suo amico, perché è quasi una persona sola e quasi due fratelli; ci sono “quasi due” visioni della fede, una da un professore integralista e una da uno mistico. Ci sono “quasi due nemici”, nel faccia a faccia col nemico iracheno. È tutto un quasi. Cerco di raccontare poi come all’inizio della guerra un ragazzino che era partito volontario si è trasformato in un eroe nazionale. Tutt’ora questo ragazzino è eroe nazionale, c’è sulle banconote, non c’è paesino senza una via dedicata a lui, una piazza o una statua. Sui libri di scuola diversi capitoli su di lui che rappresenta il simbolo del martirio che il regime continua a inculcare negli adolescenti come immagine di riferimento.

26 Marzo 2013

Bibliografia

I) Bibliografia critica sul tema dell’esilio

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II) Su Edward W. Said

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III) Su Luigi Meneghello

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I.D., Libera nos a Malo, Rizzoli, Milano, 2006.
I.D., Maredè, maredè..., BUR, Milano, 2002.
I.D., Opere scelte, a cura di Giulio Lepschy, Francesca Caputo, Domenico Starnone, i Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993-1997.
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IV) Sulla letteratura post-coloniale e della migrazione

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Y. WAKKAS, Io marocchino con due kappa, in Le voci dell'arcobaleno, Fara Editore, Rimini, 1996.

Su Hamid Ziarati

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I.D., Quasi due, Einaudi, Torino, 2012.
I.D., Un giorno da stella cadente, in Le voci dell'arcobaleno, cit.

Su Igiaba Scego

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I.D., Dismatria, in, Pecore Nere, di G. Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia, Laterza, Bari, 2005.
I.D., La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, Roma, 2003.
I.D., La strana note di Vito Renica, leghista meridionale, in «El-Ghibli», Anno 0, Numero 3, Marzo 2004.
I.D., Oltre Babilonia, Donzelli, Roma, 2008.
I.D., Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, edizioni Terre di Mezzo, Milano, 2007.
I.D., Rhoda, Sinnos, Roma, 2004.
I.D., Salsicce, in, Pecore Nere, di G. Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia, cit.
C. BARBARULLI, Rhoda di Igiaba Scego, ‹‹LeggereDonna››, Marzo-Aprile 2005.
E. D'ANDREA - Relatore Danilo Poggiogalli, Lingua letteraria e interculturalità: Le scrittrici italiane di prima generazione, Tesi di Laurea, Facoltà di Lingue e Letterature Moderne, Corso di Laurea in Filologia Moderna, Università della Tuscia, A.A. 2007/2008.
M.C. MAUCERI, Igiaba Scego:la seconda generazione di autori trasnazionali sta già emergendo, ‹‹El-Ghibli Bologna››, Anno 1, numero 4- Giugno 2004.
F. MESSMER, Stabile instabilità: la questione dell’alloggio nella letteratura di immigrazione di Khouma e Scego, «El- Ghibli», Bologna, Anno 6, numero 24 – Giugno 2009.

Sitografia

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note

1 Crf. G. BENVENUTI, La condizione dell’esilio: l’intellettuale come coscienza critica in Edward Said, in ‹‹Scritture Migranti›› n.1, 2007, pp. 145-156.
2 E. W. SAID, Sempre nel posto sbagliato, in ‹‹EFFE››, aprile 2001.
3 Crf. G. BENVENUTI, La condizione dell’esilio: l’intellettuale come coscienza critica in Edward Said, cit., pp. 145-156.
4 Cfr. E. W. SAID, Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 217-221.
5 Cfr. S. FERRARI, Luigi Meneghello e la cultura inglese: analisi di un’ironia che gioca con la lingua, in http://www.bibliomanie.it/luigi_meneghello_cultura_inglese_ferrari.htm, ultima consultazione 19/03/2012.
6 Cfr. L. MENEGHELLO, Il dispatrio, Rizzoli, Milano, 2007, p. 169.
7 A.A.V.V., Dizionario dei termini letterari, Torino, Utet, 2007 pp.743-749.
8 Ibidem.
9 G. DE MARCO, L’esperienza di Dante quale exul inmeritus quale autobiografia universale, in A.A.V.V., Annali d’Italianistica, Vol. 20 – 2002, pp. 73-89.
10 A.A.V.V., Dizionario dei termini letterari, cit., pp.743-749.
11 J.J. ROUSSEAU, Confessioni, Garzanti, Milano, 2006.
12 A.A.V.V., Dizionario dei termini letterari, cit., pp.743-749.
13 C. BAUDELAIRE, I fiori del male, Einaudi, Torino, 2006.
14 Cfr F. RELLA, Parole dall’esilio, in Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 131-132.
15 Ibidem.
16 A. DE VICO, L’esilio esistenziale di Ungaretti, in http://archivio.denaro.it/VisArticolo.aspx/VisArticolo.aspx?IdArt=562547&KeyW=, Cultura – Scrittori e Poeti, 11-04-2009, (ultima consultazione 22/03/2013).
17 Cfr. M. DARDANO, I testi, le forme, la storia, Palumbo Editore, Palermo, p. 789.
18 A. SEGHER, La gita delle ragazze morte, Marsilio, Venezia, 2010.
19 A.A.V.V., Dizionario dei termini letterari, cit., pp.743-749.
20 A. O. CAMPA, Utopia e disincanto: I 'esilio degli intellettuali spagnoli nella diaspora della Guerra Civile, in A.A.V.V., Annali d’Italianistica, cit., pp. 275-281.
21 Cfr. T.FIORE, L’esperienza migratoria degli italiani negli Stati Uniti come “architesto”: muratori e scrittori nelle opere di John Fante, ‹‹Bollettino d’Italianistica›› n. 2 2011, pp.339-341.
22 J. FANTE, Chiedi alla polvere, Einaudi, Torino, 2004, p.56.
23 Ivi, p. 78.
24 M. SECHI, G. SANTORO, M.A. SANTORO, L’ombra lunga dell’esilio: ebraismo e memoria, Firenze, La Giuntina, 2002, p.11.
25 P. LEVI, Se non ora quando?, Einaudi, Torino, 2007, p.94.
26 A.A.V.V., L’europa vista da Istanbul: “Mimesis” (1946) e la ricostruzione intellettuale di Erich Auerbach, a cura di Luciano Currieri, Viella, Roma, 2012.
27 Ibidem.
28 Cfr. E. TRAVERSO, Il secolo armato, interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2012, pp.142-167
29 D. UGRESIC, Il museo della resa incondizionata, Garzanti, Milano, 2002, p.165.
30 Cfr. S. CAMILOTTI, Sull’esilio. Intrecci di vita e scrittura in autori e autrici dell’oggi, ‹‹DEP›› n. 12/2012, pp. 67-85.
31 D. UGRESIC, Il museo della resa incondizionata, cit., pp. 205-206.
32 C. DE CALDAS BRITO, Amanda Azzurra Olinda e le altre, Oèdipus, Roma, 2004, p.105.
33 E. MUJCIC, Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica, Infinito, Roma, 2007.
34 S. CAMILOTTI, Sull’esilio. Intrecci di vita e scrittura in autori e autrici dell’oggi, cit., pp. 67-85.
35 E. MUJCIC, Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica, cit., pp. 93-94.
36 E. TRAVERSO, Il secolo armato, interpretare le violenze del Novecento, cit., pp.142-167.
37 Ibidem.
38 Ibidem.
39 G.BENVENUTI, R.CESARANI, La letteratura nell’età globale, Bologna, Il Mulino, 2012 , pp.112-116.
40 E. TRAVERSO, Il secolo armato, interpretare le violenze del Novecento, cit., pp.142-167.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
43 D. UGRESIC, Il ministero del dolore, Garzanti, Milano, 2007, p.17.
44 A. KRISTOF, L’analfabeta. Racconto autobiografico, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2005.
45 S. CAMILOTTI, Sull’esilio. Intrecci di vita e scrittura in autori e autrici dell’oggi, cit., pp. 67-85.
46A. KRISTOF, L’analfabeta. Racconto autobiografico, cit., p. 36.
47 Ivi, p.26.
48 Ivi, p.28.
49 Ibidem.
50 S. CAMILOTTI, Sull’esilio. Intrecci di vita e scrittura in autori e autrici dell’oggi, cit., pp. 67-85.
51 A. KRISTOF, L’analfabeta. Racconto autobiografico, cit., 2005, p.40. 52 I. BRODKIJ, Dall'esilio, Adelphi, Milano 1988.
52 I. BRODKIJ, Dall'esilio, Adelphi, Milano 1988
53 Ivi, pp. 32-33.
54 M. BRESCIANI, La repressione degli intellettuali sotto il regime fascista, in Atlante della Letteratura Italiana, VOL. III, Einaudi, Torino, 2012, pp.623-644.
55 Ibidem.
56 Ibidem.
57 Ibidem.
58 A. GRAMSCI, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, La Riflessione, Cagliari, 2008, p. 18.
59 M. BRESCIANI, La repressione degli intellettuali sotto il regime fascista, in Atlante della Letteratura Italiana, VOL. III, Einaudi, Torino, 2012, pp.623-644.
60 Ibidem.
61 Ibidem.
62 Ibidem.
63 Ibidem.
64F. CIRILLI, Gli esuli antifascisti. L'emigrazione antifascista: scrivere del regime e dell'Italia, in ‹‹Bollettino di italianistica›› n. 2 , 2011, pp.271-280.
65 Ibidem.
66 R. LUPERINI, Otto tesi sulla condizione degli intellettuali, in «Allegoria» num. 64, luglio/dicembre 2011, Anno XXIII in http://www.allegoriaonline.it/index.php/component/content/article/73-64/484-otto-tesi-sulla-condizione-attuale-degli-intellettuali.html (Ultima consultazione 22/03/2013).
67 Ibidem.
68 Ibidem.
69 Ibidem.
70 E. SAID, Dire la verità, gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 26.
71 R. LUPERINI, Otto tesi sulla condizione degli intellettuali, cit.
72 Generazione TQ, in http://www.generazionetq.org/chi-siamo/ (Ultima consultazione 23/03/2013). 73 Manifesto TQ, in http://www.unita.it/polopoly_fs/1.317635.1311750522!/menu/standard/file/ManifestoOO.pdf (Ultima consultazione 23/03/2013).
74 Da «L’Unità» del 27 luglio 2011, in http://www.unita.it/culture/i-trenta-quarantenni-ci-provano-ecco-il-manifesto-1.317632 (Ultima consultazione 23/03/2013).
75 Teatro Valle Occupato, in http://www.teatrovalleoccupato.it/chi-siamo (Ultima consultazione 23/03/2013).
76 La furia dei cervelli, in http://www.actainrete.it/2011/12/la-furia-dei-cervelli-a-roma/ (Ultima consultazione 23/03/2013).
77 G. ALLEGRI, R. CICCARELLI, La furia dei cervelli, Manifestolibri, Roma, 2011.
78 E.W. SAID, Nel segno dell’esilio, Feltrinelli Editore, Milano, 2000, p. 318.
79 Ivi, 319.
80 Ibidem.
81 E.W. SAID, Nel segno dell’esilio, cit., p. 316.
82 I.D., Sempre nel posto sbagliato, cit.
83 ID., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli Milano 1991 p.201.
84 Ivi, p.12.
85 M.FOUCAULT, L’Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1999.
86 I.D., Sorvegliare e punire, Einaudi, Milano, 2005.
87 E. SAID, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, cit., p.13.
88 I.D., Nel segno dell’esilio, cit., p. 244.
89 Ibidem.
90 Ibidem.
91 I.D., Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, cit., p. 91.
92 Ivi, p. 94.
93 S. RUSHDIE, I versi satanici, traduzione di Ettore Capriolo, Arnoldo Mondadori Editore, 1994.
94 I.D., Nel segno dell’esilio, cit., p.11.
95 Ivi, p.7.
96 Ivi, p. 8.
97 Ivi, pp. 217-221.
98 Ivi, p.217.
99 Crf. Giuliana Benvenuti, La condizione dell’esilio: l’intellettuale come coscienza critica in Edward Said, cit., pp. 145-156
100 Si vedano gli studi di S. HALL, Identità Culturale e diaspora, 1993; J. CLIFFORD, Diaspora, 1994; P. GILROY, The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness, 1993.
101 Crf. Giuliana Benvenuti, La condizione dell’esilio: l’intellettuale come coscienza critica in Edward Said, in ‹‹Scritture Migranti›› n.1, 2007, pp. 145-156.
102 Ibidem.
103 Ibidem.
104 E.W. SAID, Nel segno dell’esilio, cit., p. 216.
105 Ibidem.
106 Giuliana Benvenuti, La condizione dell’esilio: l’intellettuale come coscienza critica in Edward Said, cit., pp. 145-156.
107 Ivi, p.216.
108 Ibidem.
109E.W. SAID, Nel segno dell’esilio, cit., p.225.
110 Ibidem.
111 Ivi, p.224. 112 Ibidem.
113 Ivi, p.225.
114 Ivi, pp.228-229.
115 Ibidem.
116 Ibidem.
117 Ibidem.
118 Ibidem.
119 Ivi, p. 229.
120 L. MENEGHELLO, I piccoli maestri, Mondadori, Milano, 1986.
121 L. MENEGHELLO, I piccoli maestri, cit.
122 L. MENEGHELLO, Il dispatrio, Rizzoli, Milano, 2007, p.9.
123 M. parla dell’Olocausto in Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d'Europa 1939-1945 (1994, ma precedentemente pubblicato a puntate su Comunità tra il dicembre 1953 e l'aprile 1954 con lo pseudonimo di Ugo Varnai)
124 L. MENEGHELLO, Libera nos a Malo, Rizzoli, Milano, 2006.
125 Ivi, p.146
126 Cfr. F. MOLITERNI, Il vero che è passato. Scrittori e Storia nel Novecento italiano, Milella, Lecce, 2011 p.95.
127 . MENEGHELLO, I piccoli maestri, cit., p.267. 128 Cfr. F. MOLITERNI, Il vero che è passato. Scrittori e Storia nel Novecento italiano, cit., p. 93.
129 Ivi, p.97.
130 Cfr. A. CASADEI, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Carocci Editore, Roma, 2000, p.78.
131 F. MOLITERNI, Il vero che è passato. Scrittori e Storia nel Novecento italiano, cit., p.93.
132 L. MENEGHELLO, I piccoli maestri, cit.
133 I.D., Pomo pero. Paralipomeni di un libro di famiglia, Rizzoli, Milano, 2006.
134 I.D., Fiori italiani, Rizzoli, Milano, 2006.
135 I.D., Bau-sète, Rizzoli, Milano, 2001.
136 I.D., Maredè, maredè..., Rizzoli, Milano, 2002.
137 I.D., Il dispatrio, cit.
138 I.D., La materia di Reading e altri reperti , Rizzoli, Milano, 2005.
139 I.D., Jura. Ricerca sulla natura delle forme scritte, Rizzoli, Milano, 2003.
140 I.D., Leda e la schioppa, BUR, Milano, 1988.
141 I.D., Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d'Europa 1939-1945, Il Mulino, Bologna, 1994.
142I.D., Luigi Meneghello-Opere scelte, a cura di Giulio Lepschy, Francesca Caputo, Domenico Starnone, i Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993-1997.
143 I.D., Le Carte. Volume I: Anni sessanta, Rizzoli, Milano, 1999; I.D., Le Carte. Volume II: Anni settanta, Rizzoli, Milano, 2000; I.D., Le Carte. Volume III: Anni ottanta, Rizzoli, Milano, 2001.


144 L. MENEGHELLO, Le Carte. Volume III: Anni ottanta, Rizzoli, Milano, 2001, p.327.
145 I,D., Il dispatrio, cit., p.8.
146 Ibidem.
147 I.D. Che fate quel giovane?, Moretti & Vitali, Bergamo,1990, P.29.
148 E. PELLEGRINI, Luigi Meneghello,Cadmo, Fiesole, 2002, p. 46.
149 S. FERRARI, Luigi Meneghello e la cultura inglese: analisi di un’ironia che gioca con la lingua, cit.
150 Ivi, p.8.
151 L. MENEGHELLO, Il dispatrio, cit., p.30.
152 Ivi, p.46.
153 Ivi, p.25.
154 Ivi, p.p. 25- 26.
155 Ivi, p. 27.
156 Ivi, p.215.
157 Ivi, p.26.
158 Ibidem.
159 Ivi, p.141.
160 Ivi, p. 169.
161 Ivi, p.194.
162 Ivi, p. 169.
163 I.D., La materia di Reading e altri reperti, cit., pp. 39-41.
164 L. MENEGHELLO, Il dispatrio, cit. p.7.
165 E. SARTORI, Plurilinguismo, diglossia e traduzione in Luigi Meneghello, « Trickster », Num. 8 in http://trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=lingue_future:enio_meneghello (ultima consultazione 19/03/2013).
166 Ibidem.
167 L. MENEGHELLO, Leda e la schioppa, in Opere Scelte, Mondadori, Milano, 2006, pp. 1215-1259.
168 Cfr. A. TOSI, Luigi nel paese delle meraviglie o il diario inglese di Meneghello, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo, Atti del convegno internazionale di studi “In un semplice ghiribizzo” (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), Vicenza, Terra Ferma, 2005, pp. 193-199.
169 Cfr. L. MENEGHELLO, La materia di Reading, Rizzoli, Milano, 2005, p.1301; Ivi, p.1388; Sottoscala, in Jura, in Opere Scelte, Mondadori, Milano, 2006, pp. 1561-1580, p.1573.
170 Ivi, p. 121
171 Cfr. E. SARTORI, Plurilinguismo, diglossia e traduzione in Luigi Meneghello, cit.
172 Ibidem
173 Ibidem
174 L. MENEGHELLO, Le Carte. Volume III: Anni ottanta, cit., p. 249.
175 I.D., Quanto Sale?, in , in Jura , in Opere Scelte, Mondadori, Milano, 2006, p. 1128.
176 I.D., Il tremaio, in Jura , cit., p. 1089.
177 E. PELLEGRINI, Luigi Meneghello cit. p.20.
178 L. MENEGHELLO, Il turbo e il chiaro, 1996, cit. p.1543.
179 Cfr. S. FERRARI, Luigi Meneghello e la cultura inglese: analisi di un’ironia che gioca con la lingua,cit.
180 Cfr. E. SARTORI, Plurilinguismo, diglossia e traduzione in Luigi Meneghello, cit. 181 Ibidem.
182 Cfr G. PARATI, Italophone Voices, in Margin at the Center: African Italian Voices, numero monografico di “Italian Studies in Southern Africa”, VII, n.2, 1995, pp.1-15.
183 Cfr. L. CURTI, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Meltemi, Roma, 2006.
184 Cfr.C. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, ‹‹Bollettino d’Italianistica›› n. 2/ 2011, pp. 381-385.
185 P. KHOUMA, Io, venditore di elefanti. Una vita per forza tra Dakar, Parigi e Milano, CDE, Milano, 1990.
186 M. FORTUNATO, S. METHANI, Immigrato, Theoria, Roma, 1997.
187 M. BOUCHANE, Chiamatemi Alì: Un anno a Milano nella vita di un clandestino venuto dal Marocco, a cura di C. De Girolamo e D. Miccione, Leonardo, Milano, 1990.
188 Cfr.C. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 385-389.
189 Ibidem.
190 Ibidem.
191 C. DE CALDAS BRITO, Ana de Jesus, in Le Voci dell’Arcobaleno, a cura di R. Sangiorgi e A. Ramberti, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 1995.
192 U.C. ALI FARAH, Intervista a Christiana De Caldas Brito, «El-Ghibli», Anno I , n. 7, Marzo 2005. 193 ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., p. 389.
194 C. KIEMLE, L’italiano è migrante, «Left», in http://www.left.it/2012/01/06/litaliano-e-migrante/1808/ (ultima consultazione 17/03/2013).
195 Y. WAKKAS, Io marocchino con due kappa, in Le voci dell’arcobaleno, Fara Editore, Rimini, 1996.
196 T. LAMRI, Solo allora, sono certo, potrò capire, in ivi.
197 J. OCKAYOVÁ, Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, Baldini & Castoldi, Milano, 1995.
198 I.D., L’essenziale è invisibile agli occhi, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
199 I.D., Requiem per tre padri, Baldini & Castoldi, Milano, 1998.
200 Cfr. ROMEO,Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., p. 390.
201 Cfr. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 390-400.
202 Si vedano di J. M. MARTINS, Il percorso dell’idea (petits poèmes en prose, Vivaldi e Baldecchi, Pontedera, 1998); Racconti italiani (racconti, Besa Editrice, Lecce, 2000); L'irruzione (racconto incluso nell'antologia Non siamo in vendita - Voci contro il regime, Arcana Libri / L'Unità, a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste, prefazione di Furio Colombo, 2002); La passione del vuoto (racconti, Besa Editrice, 2003); Madrelingua (romanzo, Besa Editrice, 2005); L’amore scritto (racconti, Besa Editrice, 2007).
203 Cfr. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 390-400.
204 Si vedano di G.HAJDARI, Ombra di cane/Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhur, Fara, 2001; Stigmate – Vragë, Besa, 2002; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004; Maldiluna-Dhimbjehëne, Besa, 2005; Poema dell'esilio/Poema e mërgimit, Fara, 2005;Poema dell'esilio/ "Poema e mërgimit", II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (edizione albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Corpo presente/ Trup i pranishëm, II edizione Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012.
205 Si vedano di O. VOPSI, Nothing obvious - Scalo Publishers - monografia fotografica, 2001; Il paese dove non si muore mai , Einaudi, 2003; Vetri rosa , Nottetempo, 2006; La mano che non mordi , Einaudi, 2007; Bevete cacao van Houten!, Einaudi, 2010; Fuorimondo, Einaudi 2012.
206 Si vedano di R. KUBATI, Venti di libertà (1991); Gemiti di dolore (1991); Va e non torna (2000); M, (Besa, 2002); Il buio del mare (Giunti Editore, 2007).
207 Cfr. ROMEO,Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 390-400.
208 Cfr. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 390-400.
209 M.A. VIARENGO, Andiamo a spasso?, in «Linea d’Ombra», n.54, novembre 1990. 210 Cfr. ROMEO, Esuli in Italia. Vent’anni di letteratura della migrazione e di letteratura post-coloniale in Italia: un excursus, cit., pp. 390-400.
211 ibidem
212 Cfr G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Pecore Nere, Laterza Bari, 2005, p. 11.
213 Ivi, p. 4.
214 Igiaba Scego, in http://it.wikipedia.org/wiki/Igiaba_Scego, (ultima consultazione 18/03/2013).
215 M.C. MAUCERI, Igiaba Scego:la seconda generazione di autori trasnazionali sta già emergendo, «El-Ghibli» Bologna, Anno 1, numero 4/Giugno 2004.
216 Salsicce, in, Pecore Nere, di G. Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia, cit.
217 I. SCEGO, La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, Roma, 2003.
218 I.D., Rhoda, Sinnos, Roma, 2004.
219 I.D., Amori Bicolori. Racconti, Roma, edizioni Laterza, Bari, 2007.
220 I.D., Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, edizioni Terre di Mezzo, Milano, 2007.
221 I.D., Oltre Babilonia, Donzelli, Roma, 2008. 222 D. PERRONE, Introduzione alla lettura, «Lo specchio di carta», http://lospecchiodicarta.unipa.it/index.php/it/autori/indiceautori/21-igiaba-scego/334-introduzione-alla-lettura.html ultima consultazione 18/03/2013.
223 E. D’ANDREA, Relatore Danilo Poggiogalli, Lingua letteraria e interculturalità: Le scrittrici italiane di prima generazione, Tesi di Laurea, Facoltà di Lingue e Letterature Moderne, Corso di Laurea in Filologia Moderna, Università della Tuscia, A.A. 2007/2008.
224 I. SCEGO, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, 2010.
225 Ivi, p.9.
226 227 D. PERRONE, La mia casa è dove sono, in «Lo Specchio di carta», http://lospecchiodicarta.unipa.it/index.php/it/autori/indiceautori/21-igiaba-scego/379-la-mia-casa-e-dove-sono.html , (Ultima consultazione 18/03/2013).
228 G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Dismatria, in <7i>Pecore Nere, Laterza Bari, 2005, p. 5.
229 Ivi, p. 10.
230 F. MESSMER, Stabile instabilità: la questione dell’alloggio nella letteratura di immigrazione di Khouma e Scego, in «El- Ghibli», anno 6 , n.24, giugno 2009, in http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_06_24-section_6-index_pos_3.html (ultima consultazione 19/03/2013).
231 G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Dismatria, in Pecore Nere, cit., p. 12
232 F. MESSMER, Stabile instabilità: la questione dell’alloggio nella letteratura di immigrazione di Khouma e Scego, cit.
233 G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Dismatria, in Pecore Nere, cit., p. 21.
234 Intervista di Maria Cristina Mauceri, Igiaba Scego:la seconda generazione di autori trasnazionali sta già emergendo, in «El-Ghibli» Bologna, Anno 1, numero 4- Giugno 2004, in http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_01_04-section_6-index_pos_1.html (ultima consultazione 19/03/2013).
235 G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Dismatria, in Pecore Nere, cit., p. 25.
236 Ivi, p.26.
237 Ibidem.
238 Generazioni che si parlano ma non si capiscono :L'identità divisa degli immigrati di seconda generazione in http://www.istitutosup-gavirate.it/studenti/immigrazione/pecore_nere.html (ultima consultazione 19/03/2013).
239 G. KURUVILLA, I. MUBIAYI, I. SCEGO, L. WADIA, Dismatria, in Pecore Nere, cit., p. 31.
240 Mi sento italiana quando: 1) faccio una colazione dolce; 2) vado a visitare mostre, musei e monumenti; 3) parlo di sesso, uomini e depressioni con le amiche; 4) vedo i film di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Totò, Anna Magnani, Giancarlo Giannini, Ugo Tognazzi, Roberto Benigni, Massimo Troisi; 5) mangio un gelato di 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco senza panna; 6) mi ricordo a memoria tutte le parole del 5 maggio di Alessandro Manzoni; 7) sento per radio o tv la voce di Gianni Morandi; 8) mi commuovo quando guardo negli occhi l’uomo che amo, lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e so che non ci sarà un futuro per noi; 9) inveisco come una iena per i motivi più disparati contro primo ministro, sindaco, assessore, presidente di turno; 10) gesticolo; 11) piango per i partigiani, troppo spesso dimenticati; 12) canticchio Un anno d’amore di Mina sotto la doccia; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte (Ivi, pp. 28-30.)
241Hamid Ziarati, in http://it.wikipedia.org/wiki/Hamid_Ziarati (ultima consultazione 19/03/2013).
242 Intervista ad Hamid Ziarati, in «Libri nuovi», 1, n.39, autunno 2006, in http://www.librinuovi.info/modules/mydownloads/interviste/ziarati.pdf (Ultima consultazione 19/03/2013).
243 H. ZIARATI, Salam Maman, Einaudi, Torino, 2006.
244 I.D., Un giorno da stella cadente, in Le voci dell’arcobaleno, cit.
245 I.D., Il meccanico delle rose, Einaudi, Torino, 2009.
246 Intervista ad Hamid Ziarati, in http://www.einaudi.it/speciali/Hamid-Ziarati-Il-meccanico-delle-rose-Salam-maman (Ultima consultazione 19/03/2013).
247 H. ZIARATI, Quasi due, Einaudi, Torino, 2012.
248 Speciali Einaudi, in http://www.einaudi.it/speciali/Hamid-Ziarati-Quasi-due (ultima consultazione 21/03/2013).
249 Quasi due di Hamid Ziarati, in http://www.einaudi.it/libri/libro/hamid-ziarati/quasi-due/978880620881 (ultima consultazione 21/03/2013).
250 H. ZIARATI, Salam Maman, cit., p.105.
251 Intervista ad Hamid Ziarati, in «Libri nuovi»,cit.
252 H. ZIARATI, Salam, Maman, cit. p. 106.
253 Ivi, p. 107.
254 Ivi, p.130.
255 Ivi, p. 134.
256 Ivi, p. 150.
257 Ivi, p. 155.
258 Ivi, p. 212.

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December 2013

 

 

 

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