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un caffè in santa pace

chaki fouad

In collaborazione con la rivista "Caffè", testo tratto dal numero speciale della rivista di letteratura multiculturale: “CAFFE’ MAROCCO” - Gli scrittori marocchini in Italia (Nov. 2005)

Dentro la luce di un sole potente, esplosione di colori: in primo piano stoffe coloratissime s’attorcigliavano su corpi vigorosi di donne. Volti d’ebano qua e là, la testa avvolta in lunghi turbanti dalle mille fogge, si aggiravano tra bancarelle di frutta e verdura; bambini nudi animavano con le loro pose quel chiacchiericcio di colori. Non udivo nulla. Mi bastava a volte restare per qualche attimo dentro quella luce esotica, dentro quel muto affresco 3X4 e poi il rumore di piatti che giungeva dalla cucina della mensa di Jimmy sarebbe stato più sopportabile.
Il rumore di piatti, di forchette si fece più insistente, anche le voci più mosse e caotiche; erano arrivati anche quelli della Lanerossi: sono in tanti e urlano come se fossero sempre in mezzo ai telai rumorosi e prolungano quel tono anche in mensa, e allora anche divagare, lasciarsi andare alla stanchezza o scivolare dentro alla parete, diventa difficile. Così che quel sole potente finisce per farsi segno freddo e quei corpi neri neri si allontanano lasciando sul muro solo la traccia di colori che sbiadiscono, solo un punto nero nero. Nero. No oggi non è proprio una bella giornata. Oggi sono veramente nero.
“Hanno detto che è stato un atto terroristico”?
La voce era quella di Omar, l’amico algerino con cui mi trovavo in mensa a mangiare e scambiare quattro chiacchiere. Con il dito indicava la foto pubblicata nel giornale locale dei resti di un incidente aereo. Il titolo dell’articolo a caratteri cubitali: PRECIPITA AEREO A LINATE. 118 MORTI. Non avevo mai sentito Omar parlare così correttamente in italiano. Lui preferiva il francese, a volte l’arabo. Ne fui sorpreso. Gli risposi in arabo, quasi con stizza:
“MA GALUSH SHKUN”.(1)
“RUBBAMA BINLADEN”,(2)aggiunse Omar in arabo, quasi per mimetizzarsi nella mia voce.
Quel nome mi parve risuonare nella mensa e come in un passa parola lo sentii ritornare su di noi come un pesante schiaffo.
“DUI BSHUIA! MAZAL MAARFIN WALU”.(3)E mentre sussurravo a Omar, quasi furtivamente, queste parole cresceva dentro di me il desiderio di sparire, di essere altrove.
Là tra i sacchi di peperoncino e le cataste di banane (peperoncino, banane, mah!) c’era un bambino seduto sulla terra rossa. Accanto una donna, forse sua madre.
Pensai a mia moglie, arrivata a Schio da un anno, e a mia figlia di sei mesi e al figlio che stava nascendo. Lei mi aveva detto stupita che – maledetto quell’11 settembre – da qualche tempo molte persone per le strade di Schio la guardavano diversamente. Li vedevo quegli sguardi interrogativi, a volte sospettosi su di lei e su nostra figlia, io li conoscevo quelli sguardi. Dopo dieci anni che si vive in un posto non sfugge più niente. Dopo l’11 settembre qualcosa era cambiato. “Ma cos’è questo 11 settembre?”, mi chiedeva. Fortunata lei che parla poco l’italiano e non capisce le domande: almeno non deve rispondere. Non è così per me. Mi si avvicinavano e prima o poi la domanda usciva: “Tu che sei arabo o musulmano, cosa ne pensi di Bin Laden?”. Credo che ormai questo interrogativo aveva superato numericamente tutte le altre domande a cui un immigrato deve rispondere: “Come ti chiami? Quanti anni hai? Da quanto tempo sei qui in Italia?”. Ora per i nuovi arrivati in Italia andava automaticamente aggiunta alla lista anche:”Tu che sei arabo o musulmano, cosa ne pensi di Bin Laden?”.
La scena della madre con il bambino disegnata sul muro della mensa da JIMMI era stata coperta dal corpo massiccio di un operaio che si stava lentamente accomodando al tavolo di fronte al nostro.
Ripensai a mia moglie, difesa dalla sua ignoranza della lingua italiana e forse anche dalla cronaca di questi giorni, presa com’è dentro alle telenovelas arabe. Forse è meglio così, meno problemi come sostengono i miei connazionali che spesso fingono di non conoscere l’italiano per non rispondere.
Omar era preoccupatissimo e non riusciva a stare zitto.
“Se non l’hanno detto fino ad ora….allora forse non è terrorismo. Ti ricordi? L’11 settembre l’aveva detto subito..atto terroristico…Bin Laden…”. Ero irritato. La sua preoccupazione che si faceva logorroica. Non la sopportavo. Mi pareva che bisognasse stare un po’ in silenzio. Aggiunsi, quasi per farlo tacere o forse per mostragli il mio silenzio, il mio angoscioso silenzio:
“Stavolta è diverso”.
Con ciò volevo dirgli che l’11 settembre sì, atto terroristico, ma non qui, lontano, negli Stati Uniti, e che io non c’ero mai stato negli Stati Uniti e forse nemmeno questa gente che avevamo attorno, nemmeno Mario che amichevolmente, forse senza sapere che cosa era successo, ogni tanto dal tavolo vicino ci invitava con quel suo: “Ehi, talebani dopo vegnì qua che se bevemo un cafè prima de tornare in trincea”.
Stavolta era diverso. 118 morti a Linate, a Milano, in Italia, vicino, vicino, lì c’ero stato a prendere mia moglie in arrivo da Casablanca, da lì ero partito ed arrivato più volte.
“118 morti….potrebbe trattarsi di un guasto meccanico”.
Omar sembrava aver capito la mia angoscia, sembrava avermi letto nel pensiero il peso di quella notizia. 118 morti. A Linate. Aereo caduto. Forse atto terroristico.
Musulmani, arabi, terroristi, estremisti, talebani, guerra, pace, giustizia infinita. E poi gli arresti in tutto il mondo. Nel mondo sì, ma non qui in provincia di Vicenza, nel mitico nord-est, a Schio, dove si lavora sodo, anche noi i musulmani, gli arabi, i talebani di turno. Eppure, ora ricordo, qualcuno aveva anche trovato il tempo per scrivere sui muri di Schio: “Bastardi arabi”.Ma poi la calma era tornata perché qui si lavora, ed eravamo di nuovo tutti insieme e tutti soli a macinare dentro la grande macchina produttiva del nord est che non si era fermata, qualche rallentamento sì, ma poi via di nuovo e si doveva stare al ritmo delle nuove commesse, e non c’era nemmeno il tempo di riflettere, di risentirsi, di odiare…di amare.
Stavolta è diverso.
Avrei preferito esser qui da solo. Temevo di trovarmi qui con moglie e figlia a nascondermi, ad affrontare, a schivare l’eco di quella notizia che già nella mia mente appesantita si faceva uragano di sguardi impietosi, di odio o di risentimento o di sospetto.
La gente attorno era tranquilla, non era cambiato nulla, non era successo nulla: “Ma come se fa a lassar Del Piero in panchina?”.“Ma tasi ti talebano che de calcio no te capissi gnente”.
La TV appesa al soffitto parlava da sola.
Anche Omar, con l’angoscia nel cuore, ora parlava da solo:
“Ma con tutto quel controllo negli aeroporti!”
Un po’ spostato sul fianco ora ritrovavo il dipinto sul muro, le donne, il sole, il bambino.
Che cosa teneva tra le mani quel bambino? Non riuscivo a vedere, non riuscivo a sentire i rumori di quel mercato: forse allora mi sarei salvato, ci saremmo salvati tutti.
Si sentiva solo il vocio degli operai ormai alla fine del pasto e poi la sigla del telegiornale delle 13.00 e poi la prima notizia:
“L’ipotesi di un attentato…”
Ecco è la fine, scappare, sprofondare, rendersi invisibili, dai bambino apri la mano, apri la mano…..
“…è esclusa”
“L’ipotesi dell’attentato terroristico è esclusa”..
“La causa dell’incidente si deve al cattivo funzionamento dei radar, alla cattiva visibilità conseguita alla nebbia”.
Una luce chiara, uniforme, dolce si diffuse attorno.
“Radar, non marocchino”.
“Nebbia, non algerino”.
“Cattiva visibilità, non talebano”.
“L’invisibilità…”.
Guardai Omar negli occhi, guardai Mario negli occhi.
“Dai che vi offro un caffè”, dissi.
Con noi si sedette anche Moreno, il caporeparto.
Ci gustammo il caffé in santa pace.

(1)Non si sa ancora niente

(2)Forse Bin Laden

(3)Abbassa la voce…..non si sa ancora niente di preciso…

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Anno 2, Numero 10
December 2005

 

 

 

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