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la sua figura fra le mani

alessandro de santis

"A mio fratello Silk, che guarda il mondo"

Quella notte suo fratello gli disse perentorio: “Guarda le stelle…”. E lui rispose di fretta: “Si certo, ma domani”. Gli lasciò la mano per un attimo e lo sentì distante da sé anni luce, come se fosse emigrato in America senza più una lettera, come se bisognasse ricominciare tutto daccapo.
Gli piaceva ascoltarsi, sentire l’imperfezione dentro di sé, il suo respiro così affannato, di rincorsa, tragicomicamente asimmetrico, ma le stelle no, era successo ormai un bel po’ di anni fa oramai; sì già, con le stelle aveva proprio rotto e non era stata certo una di quelle storie di cuorespezzato o di lunaefalò, ma era proprio che, lui e le stelle, eh no, davvero no, suo fratello non c’entrava in fondo molto.
Litigare con le stelle non è una cosa da tutti i giorni; richiede una certa predisposizione alla polemica surreale, al litigio elementare, al rancore zodiacale, era insomma una questione del tutto personale, di quelle che il giorno non ci pensi perché sei troppo preso dal rumore delle tue cose ed il sole sembra volerti dare ragione, ma che poi, quando di te e di tuo non restano che i tratti del gesso sull’asfalto, le tracce abortive sul pavimento di un cesso, allora sì eccole, lì messe in fila ad aspettare che tu le finisca: il regolamento di conti, la continua epurazione.
Ecco che arriva il momento: si indossa il camice giusto, uno sguardo alla laurea in bella vista, un pensiero superstizioso e profondo a Iddio; ha inizio la chirurgia del senso, anestesie locali, pensieri sbilenchi – chi opera gli operai (?) – festina lente – avresti dovuto fare l’entomologo, dopotutto gli uomini, gli insetti… insomma, dopo aver guardato dentro, ti guardi almeno intorno…di alzare gli occhi se ne può anche fare a meno; l’enorme neon invadente assale, ché il giallo è ovunque.
Nettarsi le mani prima di guardare le stelle, che strana avvertenza, una rivoluzione copernicana dell’igiene mentale? Eppure non ti sei sporcato le mani, portavi dei guanti, sei stato attento e scrupoloso; hai operato su di te e sul tuo a lungo e hai pure mangiato una mela senza che nessun insetto venisse alla luce e ti mettesse alla prova; ecco, sarai anche ipocondriaco, ma ancora una volta, ruvida piomba la conferma che gli avvocati non servono a nulla e che a difendersi da soli ci si conosce anche meglio.
Una volta presa la tua decisione, dovrai essere coerente sino in fondo, e poiché nessuna stella in particolare è più colpevole verso di te, volti le spalle a tutte insieme, per sempre. Almeno così avevi giurato allora.
Dopotutto la terra è interessante, nutriente, stare ancorati coi piedi per terra è il modo migliore per morire già da vivi, per essere personaggi sempre in piedi del presepe; inizi a vedere le cose sul loro stesso marciapiede, azzeramento, ground zero, parità di povertà; guardare la punta delle proprie scarpe, i mosaici calpestati di gomme da masticare dilaniate, di foglie color – cancro sgretolate, di rigurgiti alcolici autodistruggenti, le carte stracce impiombate negli interstizi; puoi poi salire, superati gli spifferi all’altezza dei ginocchi, alla mezza altezza – in medio stat virtus – ci si inizia a guardare di sottecchi, il chiarore delle pupille è un sogno necessitato, si sente ogni singola venatura che si dilania imperfetta. Alla mezza altezza, ecco appunto…a quel momento del giorno – se la vita è pure un giorno che si ripete – li si possono incontrare tutti, gli…sì, gli uomini…d’ogni consistenza; incontri i menti volitivi degli impiegati, i capelli unti delle badanti, gli sforzi sulle punte dei nani, i seni prepotenti delle ragazze coi pattini al cuore, le rughe alla pizzaiola delle donne di casa, il punto di grigio – colleghintellegibili dei rappresentanti; quando è l’ora dei pasti puoi incrociare – F4 colpito ed affondato – anche gli odori mai avari di sé dalle cucine delle trattorie coi tavoli pe’ stracci, il fritto appestante per luogo comune dei ristoranti cinesi e di quel sogno americano maldigerito di McDonald’s.
Ecco, non ti pare di aver visto abbastanza per tornartene a casa in tempo utile? A cosa diavolo ti dovrebbe servire alzare ancora più insù gli occhi? Il tuo naso è abbastanza sporgente per poter rispondere ad una telefonata, importante quanto basta per non essere nessuno, la tua linea d’amarezza tramonta cadenzata laddove smog e notte che avanzano si danno di gomito per non ridere di te, non così, non proprio così e non ora…Quando pensi di iniziare a pensare in termini di interezza, di totalità, insomma di te che ti compenetri col Tutto? Quando pensi finalmente di concederti all’hi – tech dell’anima, alle sensazioni subliminali, al tuo personal – tao extrasensoriale? Pensi forse che il gioco finisca proprio così, sulla soglia. GAME OVER e…Dai forza, togliti che tocca a me giocare…
I pensieri – le parole a volte sono di una noia mortale, sembrano volerti condurre dove non hai voglia; ti legano i polsi al primo albero piantato, ti lasciano lì ad aspettar che faccia notte, a rimestare su quanto non ti vuoi bene, in fondo, a fischiettare melanconico le nenie del tuo passato rimosso, a maledire la tua controfigura non arrivata in tempo al tuo funerale, a sentenziare che preferisci il cielo sottosopra e che…i pittori di nuvole…cialtronate belle e buone!
Se davvero avessi avuto voglia di essere qualcosa di serio…Non questo tuo continuo litigare, con te stesso, con le stelle, col mondo intero; se solo tuo fratello avesse taciuto, se solo non avesse detto quelle stesse cose, se solo ti avesse anche risposto, che no, così non vale, che sei nato più grande per dare risposte, per essere pronto al peggio – sì perché al meglio, siamo capaci tutti – perché un uomo deve avere una visione d’insieme, la visione globale; e questo uomo saresti tu, eri chiamato ad essere tu…non un altro, non tuo fratello…tu.
Tu, preghiera pagana con gli occhi fissi a terra, che ti mantenevi a mezz’aria, che non pretendevi, ipocrita; tu, che trovato il momento per insinuarti, ti libravi laterale, come un soffio di pioggia, di elettroni instabile, eccoti: “O dea degli innocenti criminali, che sera è questa sera, che è la prima volta da allora che rialzo gli occhi al cielo, alle sue stelle, così, almeno di notte… – Sì certo, ma domani. – Ecco, oggi è quel domani…è ora, è l’ora in cui tutto si è ricucito, in cui i punti hanno suppurato, in cui l’anestesia ha lasciato tempo al dolore, alla rabbia di non aver mai le mani abbastanza pulite, al senso immortale di essere qualche – cosa di sconosciuto agli altri e insufficiente”.

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Anno 2, Numero 10
December 2005

 

 

 

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