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Ventiquattr’anni in diverse città europee e non aveva ancora smesso
di stupirsi per come gli uccelli si fermavano alla soglia
delle case. Non volavano mai
dentro le stanze, per finire decapitati dai ventilatori o con garbo radunati
e fatti uscire da finestre aperte verso un’altra vita, non facevano mai
il nido sui paralumi
o in qualche trave d’angolo dimenticata, fresca, dove sterco e paglia
erano tollerati fino al giorno fatale della schiusa
e allora, com’era fragile il mondo
gusci, penne, un fruscio cospiratorio d’ali sopra
e una ragazza curiosa, sotto. Anche gli uccelli, nelle loro linde città,
sapevano stare al loro posto. Non si intromettevano
nella sfera privata, pretendendo di essere ignorati
o adorati. Non consideravano le case soltanto
alberi esotici o caverne in collina.
Non essendo particolarmente colto, non conosceva il filo
di paura che lega il saggio al selvaggio; non
avendo letto abbastanza
non ricordava la storia dietro ai loro antichi giardini
geometrici, non gli venne in mente la volta in cui
il parlamento inglese aveva ucciso una legge,
scioccato dal volo malaugurante di un corvo per la sala. Notò solo
l’assenza di uccelli liberi nelle case. Pensò
che era strano.
Perché il vento dell’est porta l’odore seminale della pioggia,
profumo caldo, come gli scialli delle donne giovani
per un lungo tratto di mare, pianura e montagne,
il pavone allarga il ventaglio giapponese della sua coda e danza,
e danza finché s’accorge della sua brutta zampa squamosa.
Perché il koel non può crescere i suoi piccoli –
madre incostante della Natura che lascia i figli sulla porta
nel fitto della notte, avvolti in tempesta e controversia –
perché il koel rimarrà giovane per sempre, senza legami,
riempie le sere lunghe e vuote di dolci e tristi canti.
Perché il raro Surkhaab ama una volta sola, si sposa per una vita,
chi sopravvive s’aggira nel luogo di morte del compagno, gridando
finché, abbattuto da pietosi cacciatori o reso smunto da fame e perdita,
cade per terra, mutando le penne, in cerca della morte.
Figlio mio, mi disse la balia, che tu possa non vedere mai un Surkhaab che muore.
Ascolta il canto del flauto di canna: canta la separazione. Strappato dalle rive dello stagno frondose e sonore di vento, è unito a gioia e dolore da un flebile suono. Chi mai, chiese Rumi, può capire la voglia della canna di ritornare? Che le sue labbra escoriate riposino; e le parole siano brevi. E io, credenti, gridò Rumi (dopo aver perso l’uomo che amava), io che non sono orientale né occidentale, non sono cristiano, né musulmano o ebreo, e neppure figlio di Adamo ed Eva, cosa posso amare se non il mondo stesso, cosa posso baciare se non la carne? Che le mie labbra escoriate riposino, allora. e che tutte le parole siano brevi.