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koocha

bashir shakawarz

5 novembre, 2001
Questo racconto è dedicato alla gente di un Koocha (quartiere) di Kabul, chiamato Andrabi.

KOOCHA

Il nostro Koocha era autosufficente, avevamo tutto. Nel cuore del Koocha c’era una vecchia moschea. Dio solo sa quando fu costruita la nostra moschea però aveva solide fondamenta con verande sopra e sotto, colonne in legno, il mehrab, mensole per testi islamici, un’enorme porta a libro in legno al piano superiore e una piccola ma robusta porticina al piano terra. D’estate, quando il venticello soffiava liberamente, ventilando l’ingresso della moschea, veniva usato il piano superiore, mentre il piano inferiore, dove porte e finestre erano abbastanza piccole da limitare i gelidi spifferi, veniva usato per lo più d’inverno, quando faceva freddo. Il numero dei devoti musulmani del Koocha era direttamente proporzionale ai gradi centigradi. Quando andava sotto zero, il piano terra si riempiva di fedeli, riuniti attorno al bukhari (il camino di legno), mentre in estate quegli stessi fedeli si riunivano attorno alle rose del giardino locale, Parke Zarnegar (parco dal tappeto dorato), dove sbocciavano i fiori e l’amore era nell’aria.

Nel Koocha c’era un negozio di proprietà di Nikoye Lang (Niko lo Zoppo), un bastardello che spesso maltrattava i bambini piccoli prendendogli i soldi senza dargli niente in cambio; se invece era di buon umore, si assicurava di dar loro la roba più scadente o andata a male. Io stesso ho avuto il piacere di farmi fregare da lui più di una volta e di essere poi abbastanza sciocco da tornare al suo negozio chiedendogli garbatamente, da bambino ben educato e gentile com’ero: “Zio Niko, potresti darmi della frutta secca per un afgani”. La quantità di grandi vassoi disposti attorno all’entrata del suo negozio rendevano difficile per il braccio di un bambino piccolo arrivare fino a lui, che così, spesso ci chiedeva di tirargli le monete. Non sempre il tiro era preciso e se la monetina spariva tra la frutta secca e le altre merci dei suoi molti vassoi allora Niko semplicemente non ci dava niente e ci diceva che era colpa nostra. Era davvero meschino fregarsene del fatto che quei pochi soldi che avevamo erano probabilmente la nostra paghetta per l’intera settimana. E se ci lamentavamo, allora lo Zio Niko negava di aver mai ricevuto denaro e oltre a ciò ci ricopriva di insulti per dominare i bambini più piccoli e deboli e farci scappare senza ulteriori proteste. Lo Zio Niko non veniva mai alla moschea, cosa irritante per gli anziani del Koocha che però, con il nostro Zio Niko-lo-Zoppo, il bastardo finivano sempre per chiudere un occhio.

Nel Koocha poi avevamo anche le Nanwai (le panettiere) che facevano un pane casalingo fantastico, con un profumo che ricopriva la vallata del Koocha da cima a fondo. Zio Safdar impazziva per tutto questo, non per l’odore del naan appena sfornato ma alla vista della panetteria. La panetteria era il centro dei pettegolezzi per le donne del Koocha che venivano a comprare il pane fresco o semplicemente portavano l’impasto da far cuocere nel forno tandoori di Aaja. Aaja era una donna molto bella che veniva da Hazarajaat. La panetteria in realtà contava tre Aaje, si chiamavano tutte Aaja. L’Aaja Maggiore e le due più giovani. L’Aaja Maggiore era la più anziana e la più carina, con un didietro proporzionato e delizioso, di quelli che attirano gli sguardi, e di sopra due seni armoniosi e invitanti, assai graditi dagli afgani del Koocha. Era questa Aaja più vecchia e non il pane fresco a fare impazzire di desiderio Zio Safdar, che inventava continue scuse per recarsi il più spesso possibile alla panetteria, talvolta comprando più pani anche nell’arco di due o tre ore. Beh, le donne della panetteria non erano certo così stupide da non capire il motivo delle frequenti visite di Zio Safdar ma a loro non importava anzi, lo consideravano un passatempo divertente ed innocuo. Non appena il profumo del pane sfornato annunciava l’inizio delle attività della panetteria, ecco arrivare Zio Safdar, che si metteva in posizione dietro la lunga fila di persone e poi si spostava continuamente per ritrovarsi dirimpetto o di dietro ad Aaja Maggiore. Le altre donne, anch’esse in attesa del pane, non avevano niente da obiettare sulla sua strategia. In verità a loro piaceva spiarlo occhieggiare il sedere o le tette di Aaja dal suo posto preferito perché i suoi roventi sguardi le divertivano molto. Lo osservavano con interesse mentre strabuzzava gli occhi e questo accadeva ogni volta che Aaja si piegava verso il forno per sbattervi sopra il pane fresco. Non appena si chinava le venivano fuori il sedere e le tette e allora anche gli occhi di zio Safdar schizzavano fuori dalle orbite mentre dal pubblico in fila si levavano risatine.

Certo la panetteria non era l’unico luogo di perdizione del Koocha, che aveva infatti anche un suo bordello, situato nella sua zona più nascosta e per gran parte della notte frequentato da gente di fuori. Sfortunatamente non ne so molto di più perché all’epoca ero troppo piccolo e ingenuo per capire le complesse politiche di questo lato del Koocha.

Nel Koocha esistevano anche realtà minori, come il negozietto di Moochi (il calzolaio) e un negozio più piccolo di proprietà del barbiere. Si trovavano l’uno di fronte all’altro e guadagnavano su per giù lo stesso. I loro guadagni dipendevano rispettivamente dalla crescita di capelli e dal consumo di vecchie scarpe. Da bambini non ci piaceva andare dal barbiere perché non volevamo farci tagliare i capelli. Tuttavia, poiché erano i nostri genitori o le autorità scolastiche a darci l’ordine dovevamo obbedire. Comunque il Moochi in fondo non ci dispiaceva, specialmente visto che suo figlio era un nostro caro amico e che sua figlia era amica delle nostre sorelle.

C’erano tanti altri personaggi nel Koocha, personaggi che non necessariamente davano lavoro né contribuivano agli affari e ai servizi ma avevano anch’essi un proprio ruolo nella comunità, come il nostro Zio Calanter (Zio Leader), che aveva il ruolo di guida della gente del Koocha, o Haji Baz (Haji Falco e Fiore), che non era strano quanto lo era invece il suo nome combinato di falco e fiore, e aveva il compito privilegiato di invitare la gente alla moschea per pregare e recitare l’Aazan (chiamata alla preghiera). E ancora lo Zio Tuf Tufi (lo zio sputone), che una volta fu beccato pubblicamente a sputarsi nel palmo della mano e dopo a toccarsi le parti basse. Si capisce perché non riusciva più a liberarsi del nomignolo datogli dal Koocha – il nostro Zio Tuf Tufi, lo zio sputone. Non aveva un ruolo specifico ma stava sempre a lamentarsi della vita e lo si vedeva spesso parlare a voce alta con se stesso. C’erano comunque periodi in cui indubbiamente si adoperava per la comunità del Koocha come succedeva a volte d’inverno, quando si sentiva bene e allora costruiva bellissimi aquiloni, vendendoli poi ai bambini a prezzi più bassi di quelli dello Zio Niko-lo-Zoppo, il Bastardo. Era così riuscito a conquistarsi il favore dei piccoli che invece detestavano lo Zio Niko-lo-Zoppo. Come era mai possibile voler bene a uno zoppo o essere gentili con lui quando questo non perdeva occasione per comportarsi da bastardo. Senza dimenticare poi il nostro Qadeer lo Sharabi (Qadeer l’ubriacone); lo trovavi sempre davanti al negozio di Niko a bere alcol, seduto su una panchina che lui stesso gli aveva dato. In confronto Niko era poco odiato, Qadeer però lo odiavano in molti perché bevendo così pubblicamente di fronte all’intera Koocha, per così dire, dimostrava di avere poco rispetto per la sua gente. E il negozio di Niko non era neppure così lontano dalla moschea, anzi non lo era affatto, nessuno però gli diceva niente o meglio, sceglievano di non dirgli niente poiché Qadeer era ricco e potente e apparteneva a una famiglia della classe dirigente che in passato aveva intrattenuto rapporti con l’ex sovrano. Niko e Qadeer erano buoni amici ed era proprio Niko a produrre l’alcol che a sua volta poi vendeva a Qadeer in buste di plastica; la sua fabbrica infatti non produceva ancora bottiglie. L’alcol di Niko si chiamava plastiky (alcol in buste di plastica).

E poi c’era Taq, il cantautore. Taq componeva musica non per scelta bensì per effetto dell’hashish, che aveva finito per mandarlo completamente fuori di testa. Fumava nero afgano di continuo e semplicemente non riusciva a smettere. Le sue canzoni non mi interessavano ma le parole erano straordinarie, tutte farina del suo sacco:

Sare kohe beland zardak namaisha
Dele dukhtar ba peermardak namaisha
Dele dukhtar ba lugey aashadaras
Ke lungey aashadar paida namaisha

Non crescono carote in cima alla montagna
Non è innamorata del vecchio la ragazzina
La ragazzina ama l’uomo col turbante speciale
Non è facile trovare quel tipo di turbante

Oppure un’altra faceva così:

Negare nazaneene yare dardam
To ke shooi may geree kawshe maraa gham
To ke shoooi may geree maam zan gerefftum
Ba to khanda kuna khalqaaie aalam

L’amata mia che con me condivise gioie e dolori
Si è sposata ma neppure alle mie scarpe gliene frega un accidenti
Si, si è sposata e anch’io mi sposerò
Ma sarà lei che diverrà lo zimbello delle genti.

Beh, a mio avviso era un filosofo. Un filosofo senza seguaci, ma un poeta con molti ascoltatori.

Se il Koocha era il centro delle attività e dei più eccitanti avvenimenti, la nostra scuola era esattamente l’opposto. Luogo terribilmente noioso contava insegnanti come Qari Umar (professore di religione), dotato di un pungente senso dell’umorismo, e Najiba-Jaan, l’insegnante di geografia, una vera e propria despota, sebbene debba dargliene atto, aveva le cosce più sexy e meravigliose mai viste, che ci fecero imparare tutto un altro tipo di geografia. Molti altri insegnanti vivevano nel Koocha ma non avevano soprannomi altrettanto eloquenti né la stessa significativa influenza di chi vi ho parlato finora.

Sono stati loro i due personaggi che più hanno influenzato la mia infanzia nel Koocha. Primo fra tutti Qari, che introdusse la rigidissima regola di studiare il corano a memoria. Da piccolissimo, ogni mattina ero obbligato a svegliarmi prima dell’alba per recarmi alla moschea e imparare il corano dal Mullah in persona. Era davvero una tortura doversi alzare prima dell’alba a quell’età; non mi dimenticherò mai del disperato bisogno di dormire che provavo in quel periodo.

E poi c’era Najiba Jaan, che con il suo tipico modo di trattare i bambini in classe ha reso la mia vita un inferno sia a scuola che nel Koocha. Najiba Jaan, laureata, era famosa per le sue minigonne; era tra le maestre uscite dalla facoltà per l’insegnamento professionale ma il suo modo di insegnare era molto strano. Era davvero capace di farmi odiare la scuola senza che ci fosse un vero e proprio motivo, soprattutto considerando la mia bravura in classe e negli studi. A pensarci bene ero bravo sul serio in confronto agli altri bambini. Sfortunatamente non tutti i miei compagni riuscivano a ricordarsi le sue spiegazioni e lei era una di quelle insegnanti che interrogano sempre gli studenti sull’ultima lezione, quella che aveva assegnato una settimana prima. Per fortuna io avevo una buona memoria, ma Jano no. La verità è che stava poco attento alle sue lezioni e molto di più alle sue cosce e alla minigonna. Oltre a non fare attenzione in classe e ad avere la mente presa dalle bellezze di Najiba, Jano stava sempre ad architettare nuovi piani per colpire il Koocha. Era un bullo, dotato di poco rispetto per la gente, con l’abitudine di rubare cose futili, comprese le lampadine dei lampioni pubblici che di notte illuminavano il Koocha. I suoi furti e le sue bravate obbligavano i bambini e gli anziani a tornare a casa in completa oscurità. Jano era davvero un bell’impiccio ed io fui costretto a farci i conti tramite Najiba Jaan. Come dicevo prima, Najiba Jaan aveva un modo molto speciale di insegnare e di fare domande per verificare che gli alunni avessero imparato la lezione. L’ora dell’interrogazione era in realtà l’ora della punizione e le permetteva di darci un assaggio della sua tirannide.

Najiba Jaan era solita punire gli alunni svogliati tramite i loro compagni di classe. La sua politica consisteva nell’interrogare i bambini cattivi e svogliati facendogli domande alle quali molti di loro non sapevano rispondere, dopodiché poneva quelle stesse domande agli alunni bravi, che rispondevano bene. Dopo la prova domanda risposta Najiba Jaan infliggeva la punizione nel suo classico stile, in altre parole ordinava agli alunni bravi di schiaffeggiare a turno quelli cattivi. Fu in questa situazione che incontrai Jano; lo presi a schiaffi in faccia su ordine di Najiba Jaan solo per essere in seguito fermato mentre tornavo a casa e riempito di botte da lui e della sua banda. Li odiavo davvero, tutti e due. Odiavo Najiba Jaan e Jano, e sentivo che entrambi erano dannosi per me.

Fortunatamente la tortura scolastica non durò troppo a lungo ma la profondità della punizione e dell’impatto psicologico di Jano lasciarono il segno per un bel po’ di tempo. Lo temevo, continuai a temere lui, la scuola e Najiba Jaan per molto tempo ancora. Persino dopo che Jano finalmente ci lasciò e divenne un vero e proprio gangster continuai ad avere difficoltà a desiderare di andare a scuola. Anche Najiba Jaan per fortuna decise di continuare a insegnare alla quarta perciò per l’anno seguente riuscimmo a sfuggire alle sue grinfie. Grazie a Dio, potevo finalmente respirare a pieni polmoni dopo un tempo che mi era sembrato interminabile.

In verità Jano non scomparve completamente dai nostri pensieri e in qualche modo il suo ricordo continuò ad assillarci. C’era lui dietro a ogni furtarello e poi dietro ai furti sempre più grossi. C’era lui dietro al bagarinaggio dei biglietti cinematografici, li comprava a poco e poi li rivendeva per guadagnarci. C’era lui dietro le molestie alle ragazze, le fermava mentre andavano a scuola e le molestava sessualmente, e questo fu probabilmente l’atteggiamento che più colpi il Koocha.

Comunque, la vita a scuola non era sempre così dura e c’erano momenti in cui mi divertivo molto, come quando giocavo a calcio ed ero nella squadra, la stessa squadra che aveva Ali come capitano. Ali era davvero un bravo calciatore, scaltro, veloce, da tutti considerato spietato perché una volta che aveva la palla nel posto giusto faceva gol. Arrivò ad avere una reputazione tale per cui non appena era in posizione, il portiere avversario si arrendeva psicologicamente al fatto che la palla avrebbe inevitabilmente toccato la rete, come in effetti succedeva ogni volta. Ali comunque era spietato solo quando giocava a calcio e lasciatemelo dire, se dicevano che era spietato era perché non aveva nessuna pietà per l’avversario. Ma era un giocatore leale e non aveva mai fatto male a nessuno in campo. Ali mi piaceva anche per la sua modestia e gentilezza, e per un altro motivo speciale, vale a dire che una volta mi riparò le scarpe.

Era uno di quei pomeriggi qualunque ed io stavo tornando a casa da scuola. Quel giorno Jano e la sua banda mi fermarono per darmi una bella scarica di botte. Come sempre gli tenni testa e mi difesi bene ma finii per essere sconfitto dalla banda. La mia reazione li fece infuriare e così non solo si assicurarono di picchiarmi più forte del solito ma mi rovinarono persino i vestiti. Indossavo le mie scarpe nuove, si chiamavano boote aaho (scarpe di daino). Erano scarpe di buona qualità che mio padre mi aveva comprato per aver preso dei bei voti a scuola. Avendole pagate care mi chiese di farci molta attenzione. La banda di Jano riconobbe nelle scarpe il mio punto debole e intuì a cosa sarei andato incontro se mio padre si fosse arrabbiato perché non ci ero stato attento. Dopo che ebbero finito con me e con le scarpe, mi resi conto che ero davvero in un bel guaio anche a casa. Mi misi seduto sul bordo del marciapiede e cominciai a piangere per il destino che mi attendeva. Fu lì, con la testa nascosta tra le gambe, che sentii Ali chiedermi dolcemente: “qual è il problema?” Gli dissi cosa era successo. Inveì contro Jano e capì che, adesso che le scarpe erano rovinate, avevo paura di affrontare mio padre. Mi consolò e suggerì una soluzione al problema. Accettai, così poco dopo eravamo di fronte al negozio del calzolaio. Il moochi (il calzolaio) era il padre di Alì. Gli raccontò cosa mi era successo e lui fu talmente gentile da aggiustarmi le scarpe in modo tale che il danno si vedesse appena, oltre a non farmi pagare niente per la riparazione.

Da allora tra me e Ali nacque una splendida amicizia. Ero sempre nella sua squadra, anche se ero indubbiamente meno bravo di tanti altri. Far parte della sua squadra mi faceva sentire sicuro di me e poiché vincevamo sempre mi convinsi che ero un buon calciatore.

La nostra amicizia non era a senso unico e anch’io cercavo di contraccambiare, talvolta portando della frutta secca e dividendola con lui, o addirittura chiamandolo a casa nostra a prendere il tè con noi, altre volte invece invitandolo ai picnic di famiglia. Anche suo padre era felice di questa amicizia e gli permetteva quindi di unirsi ai nostri picnic a Paghman, un posticino bellissimo appena fuori Kabul.

Ali aveva una sorella che come noi frequentava la scuola. Era una ragazza timidissima ma bella e sembrava crescere a vista d’occhio. Era anche un’alunna molto intelligente e un buon esempio di come una bambina potesse andare bene a scuola nonostante provenisse da un ambiente povero. Il bell’aspetto e la timidezza facevano di Nasrin un bersaglio delle bravate di Jano. Un giorno mentre tornava a casa, Jano la fermò e le chiese se voleva mettersi con lui. Nasrin era sì povera, ma non certo stupida. Sapeva che Jano era l’ultima persona con cui voleva stare così rifiutò le sue avance. Purtroppo lui non si diede per vinto e quando il giorno dopo provò a convincerla con più insistenza lei reagì dandogli uno schiaffo. Jano era arrabbiato sul serio, ricordarsi del suo ego ferito a scuola era un conto ma venire schiaffeggiato pubblicamente per strada, specialmente da una donna, era ben altra cosa. Lui era il classico esempio di macho. Da quel giorno scomparve dal Koocha e non si fece più vivo. C’è un proverbio afgano che dice “cento colpi del gioielliere non valgono un colpo del fabbro”. Mi sentivo come se fossi stato un gioielliere con i miei tentativi di colpire la faccia di Jano, quando a lui non serviva che quell’unico colpo di Nasrin. Nell’arco di una notte la bella e timida ragazza del Koocha divenne un eroina.

Il 1979 fu un anno di grossi sconvolgimenti. Il Koocha cominciò a cambiare e primi fra tutti i suoi abitanti. C’era chi andava e chi veniva. Per le strade macchine e carri armati scorrevano gli uni accanto agli altri, mentre i cieli erano solcati da aerei da guerra. L’arrivo dei russi fu accompagnato da un gran frastuono e anche da molti altri cambiamenti. Nel Koocha vedevamo arrivare estranei, gente di altri villaggi, uomini dai folti baffi e armati di pistole che si professavano protettori della rivoluzione. Erano marxisti e fedelissimi dei russi. Tutto ciò non mi preoccupava. A dire la verità nel profondo del mio cuore non ero soddisfatto del precedente governo corrotto e desideravo che avvenissero dei cambiamenti in positivo. Ebbi il mio primo vero impatto con l’invasione straniera la notte in cui due uomini dell’Afghan Youth Association vennero a cercarmi a casa chiamandomi per nome. L’Associazione era un gruppo di giovani assoldati dal governo rivoluzionario per mantenere la sicurezza pubblica e proteggere la rivoluzione dai suoi nemici, nemici presumibilmente sostenuti dalla CIA. Vedere questi uomini della Youth Association venire a cercarmi a quell’ora di notte con i kalashnikov e le jeep russe non era un buon segno. Mia madre era preoccupatissima ma non c’era modo di sottrarsi. Con riluttanza seguii gli ordini e mi misi seduto sul retro della jeep, senza che sapessi minimamente dove mi avrebbero portato. Quando chiesi loro dove stessimo andando, non mi risposero. Mi zittirono dicendomi semplicemente: “aspetta e vedrai”. Devo ammettere che quei venti minuti in macchina furono i più lunghi della mia vita fino a che non vidi la jeep entrare nel presidio della Youth Association e allora capii che dovevo aver fatto qualcosa di veramente grave.

Al mio arrivo fui subito accompagnato in una grande stanza piena di mobili ingombranti. Lì, dietro a un’ampia scrivania, scorsi un uomo intento a leggere dei giornali. Non riuscivo a vederlo in faccia. I due tipi che mi avevano portato fin lì lasciarono la stanza ed io rimasi pietrificato dalla paura, senza batter ciglio. Non osavo aprire bocca e aspettai. Fu un’attesa molto lunga. Il boss alla fine sollevò il viso dai giornali e si avvicinò ad un armadietto per versarsi da bere della Vodka russa, che si scolò d’un fiato. Fino a quel momento mi ero concentrato più sui movimenti che sul suo volto ma quando finalmente mi fermai a guardarlo in faccia rimasi scioccato nel vedere Jano in quell’enorme e ridicola uniforme sorseggiare vodka e guardarmi come se fossi un pezzo di carne. Scoppiò in una fredda risata sarcastica dopodiché disse “quanto tempo eh, bimbo bravo della classe. Presumo tu non sapessi di questo mio incarico.” Ero terrorizzato. “Accomodati” disse con voce ferma e autoritaria. Lentamente mi misi a sedere sulla sedia di fronte a lui in attesa di vedere cosa mi sarebbe successo. Il silenzio si prolungava e la mia paura cresceva di momento in momento. Continuò a bere. Si sentì bussare alla porta. Un uomo entrò, si avvicinò a Jano e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Jano annuì e poi a voce alta disse che avrebbe risolto la faccenda in un attimo. L’uomo uscì dall’ufficio e Jano prese il cappotto e lo seguì lasciandomi solo. Era una tortura non sapere cosa ne sarebbe stato di me. Non avevo ancora fatto neppure una domanda. Me ne stavo lì seduto ad aspettare. Non so se fosse la paura o il caffè che avevo bevuto prima di arrivare nell’ufficio di Jano ma mi scoppiava la vescica. Non avevo il coraggio di uscire di lì, mi faceva male, davvero male. Ero molto stanco e avevo sonno ma il dolore alla vescica era abbastanza forte da tenermi sveglio. Finalmente, dopo molte ore di attesa, Jano tornò. Vide che stavo aspettando, aveva il suo solito sorrisetto maligno. Mi ordinò di alzarmi ed io, mosso dalla paura, obbedii di corsa “vai a dire a tutta la gente del Koocha che Jano è tornato. Adesso sono nell’Afghan People’s Party e abbiamo intenzione di ripulire l’Afghanistan dagli elementi della CIA e dai fondamentalisti arabi e pakistani”. Mi si avvicinò, tremavo di paura. “Sai che posso uccidere con la stessa facilità con cui si uccide una mosca senza che nessuno possa toccarmi, nessuno!” gridò. “Ti avverto, comportati bene. Entra nel partito, collabora con noi, tienici al corrente di cosa accade nel Koocha. Informaci sul nemico del popolo. Va’ a casa e pensaci, ricordati, la vita non è più come a scuola, non c’è più nessuna Najiba Jaan a proteggerti. A dire la verità la puttana brucia già all’inferno, considerati fortunato.

Mi girava la testa. Quella sera tornai a casa ma non riuscii a dormire. Girava voce che il nuovo governo appoggiato dai russi mettesse la gente in prigione e la torturasse ma non avevo idea che qualcosa del genere potesse accadere a me. Pensavo che il nuovo governo si occupasse solo dei suoi nemici ideologici ma dopo aver visto Jano al comando mi ero reso conto che molte persone venivano messe in carcere a causa di rancori personali. Sì, l’incubo era entrato nel Koocha e nella mia vita. Cercavo di non dare nell’occhio, decisi di ridurre i miei rapporti con gli altri e di non discutere mai di politica. Tuttavia non passava giorno che non sentissi di qualche sparizione. Alcuni venivano trattenuti dalla polizia di stato mentre altri, preoccupati della loro sicurezza come profughi, abbandonavano il paese. La loro scomparsa metteva gli altri in pericolo. I parenti che rimanevano nel Koocha erano visti come parenti di nemici governativi. Nessuno era al sicuro. Il cielo, un tempo rallegrato dai bellissimi aquiloni afgani era ora carico di paura.

Tutti questi episodi erano tentativi di spezzare il normale ritmo del Koocha, che crollò definitivamente però soltanto il giorno in cui venimmo a sapere che Ali aveva sparato a Jano con una pistola. Non fu una bella notizia per il Koocha. Tutti furono presi dal panico al pensiero che molta altra gente sarebbe stata arrestata dal governo come collaborazionista di Ali e nemica del governo. Non eravamo minimamente al corrente che Ali fosse in qualche modo connesso con gli Arabi, i pakistani o la CIA. Dopo la sparatoria, lasciò il paese e così toccò allo sventurato di suo padre finire in prigione. Venimmo a sapere che lo avevano torturato affinché rivelasse dove si trovava Ali. Sfortunatamente il vecchio non sapeva niente del figlio o della sua decisione di sparare a Jano.

Neppure io ero troppo contento di Ali e pensavo che non avesse avuto nessun diritto di disturbare il Koocha per la sua causa politica. Ali mi aveva dato l’impressione di essere sicuramente più sensibile di uno che commette un atto così idiota come mettere in grave pericolo tutti i membri della sua famiglia. Io stesso temevo per la mia incolumità perché sapevano che ero stato un suo caro amico. Passò molto tempo prima che la verità su quello che aveva fatto venisse a galla. La storia aveva a che fare con Nasrin. A quanto pare Nasrin era stata rapita dalla Youth Association e portata da Jano. Fu trattenuta per la notte e stuprata. Il giorno seguente, quando arrivò a casa, la famiglia preoccupata scoprì cosa le era accaduto. Ad Ali ribollì il sangue nel venire a conoscenza della terribile sventura della sorella e andò dritto alla Youth Association. All’entrata oltrepassò una guardia, gli sfilò la pistola e prima che qualcuno potesse muovere un dito entrò nell’ufficio di Jano e gli sparò. Poi si dileguò verso il Pakistan per unirsi alla lotta contro i restanti rivoluzionari. Il governo nascose la verità sostenendo che Ali parteggiava per i fondamentalisti e che l’omicidio era politico.

La scomparsa di Ali rese la mia vita triste. Un’altra tragedia che spezzò il cuore del Koocha fu il suicidio di Nasrin. L’umiliazione dello stupro, la perdita del fratello e del padre la portarono alla pazzia e una sera si tolse la vita. Misero dentro anche Haji baz Gul. La religione venne dichiarata veleno per la mente. Sentivo che era arrivato il momento di abbandonare il Koocha e così mi organizzai in segreto per fuggire via da tutti questi avvenimenti. Ricordo chiaramente il giorno in cui dovevamo finalmente abbandonare il Koocha. Il sole splendeva, ma avevo molto freddo. Vicino alla moschea vidi Taq seduto con la testa tra le gambe, la testa era avvolta in una nube nera di hashish. Dall’altro lato vidi Qadeer, che in quell’occasione aveva una grossa bottiglia di Vodka davanti a sé e un sorriso molto stupido stampato in faccia. Camminando li oltrepassai in silenzio.

Bashir Sakhawarz 26 ottobre, 2001, Kosovo
Prishtina


traduzione di Lorenza Marini

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Anno 2, Numero 10
December 2005

 

 

 

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