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l'arrivo in italia

selam guesh alema

Io sono venuta in Italia il 7 febbraio 1999.
Quando stavo arrivando in aereo ero tutta eccitata, venivo in un paese a me sconosciuto, dove non c’era la guerra e di cui mi avevano parlato bene. Ero tanto curiosa di vedere come fosse e di conoscere la gente che ci abitava.
Sei ore di viaggio mi erano sembrate un’eternità.
Quando arrivai rimasi sbalordita: le strade asfaltate sbucavano da tutte le parti, i palazzi erano altissimi, le persone così serie…
Avevo sempre vissuto a Senafe, un piccolo villaggio di campagna pieno di animali, non avevo mai visto palazzi.
All’inizio ero strafelice di essere arrivata qui, avevo tutto, avevo perfino mia madre vicino dopo molti anni. Poi, dopo un po’, lei iniziò a lavorare e io incominciai a sentirmi sola, incominciai a sentire la mancanza e il desiderio di ritornare nel posto dove avevo vissuto i miei primi anni. Mi mancava giocare con i miei amici e andare al pascolo con loro – anche se non ero brava e tornavo a casa con qualche pecora smarrita – mi mancava la gente, il suo buongiorno la mattina e le chiacchierate del più e del meno con i vicini la sera.
La gente di qua non mi piaceva, era completamente diversa da quella che ero abituata a frequentare, sempre di corsa, usciva alla mattina per lavorare e rientrava a casa alla sera per dormire.
Inoltre non sopportavo che all’improvviso avessi dovuto fare quasi da mamma a mio fratello e non sopportavo di rimanere chiusa in casa, ero abituata ad uscire e rientrare quando mi pareva, nel mio paese tutti si conoscono.
Ora mia madre mi diceva: “Stai dentro!”, “Non Uscire”, “Non aprire la porta a nessuno”…
Queste parole per me erano incomprensibili, non capivo perché le dicesse, ma obbedivo. Non avevo il coraggio di dirle che volevo tornare a casa mia, dai miei nonni, avevo paura che potesse interpretare questo mio desiderio in modo negativo nei suoi confronti.
All’inizio non parlavo con lei, non riuscivo ad avere la complicità che avevo con i miei nonni, con i quali avevo vissuto quattro anni quando lei non c’era. Loro erano le presone a cui volevo un bene dell’anima, per quattro anni mi avevano fatto da madre e padre e i miei zii da fratelli maggiori, senza farmi sentire la mancanza di nulla, insegnandomi quale è il bene e quale è il male.
Pian piano, col passare dei mesi e degli anni, ho iniziato ad adeguarmi, pensando alle cose positive, come la scuola e le amiche che ascoltavano per ore i miei lamenti facendomi capire che mi volevano bene e che vivere qua non era poi così brutto, anzi.
Ora ho imparato ad affrontare anche mia madre e a confrontarmi sulle mie idee e desideri. Spesso litighiamo. “Non rispetti gli orari che ti do”, “Cosa hai fatto fino a quest’ora?” “Voglio sapere con chi sei stata”. Io non rispondo, non sono fatti suoi. Poi finisce sempre nello stesso modo: “Io lavoro tanto per voi e voi mi ripagate così”. E questo mi rende furiosa, non le ho chiesto io di nascere, né di portarmi qua, quello che fa è solo il suo dovere. Queste parole le fanno male, io le dico solo quando sono davvero arrabbiata e immediatamente le chiedo scusa.
Mi dispiace svegliarmi da sola alla mattina e vedere mia madre a casa solo una o due volte alla settimana, ma la capisco e la ringrazio, anche se non gliel’ho mai detto, di lavorare così tanto per soddisfare i miei bisogni e quelli di mio fratello. Oggi non sono più sola, mi sento anche più libera e non provo più quella sensazione di soffocamento dei primi mesi. Mi piace vivere qui in Italia e penso di rimanerci fino a quando avrò terminato gli studi, ma il desiderio di tornare nel mio paese è ancora molto forte.

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Anno 2, Numero 10
December 2005

 

 

 

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