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intervista a bashir shakawaraz

valentina acava mmaka

La tua produzione letteraria è caratterizzata da una vivida ironia. Che posto occupa nella tua vita e in che modo essa influenza la tua scrittura? La consideri come uno strumento per leggere la realtà da altre prospettive, renderla anche più accettabile quando è drammatica?

La mia scrittura è ricerca. Ricerca di persone, luoghi e perfino di cose che non è possibile trovare. Cercare per uno sprazzo di felicità o per continuare a vivere serenamente. Con questo tipo di atteggiamento la vita diventa ironica. La felicità e la malinconia si mescolano così come commedia e tragedia diventano un’unica storia di vita. Affronto gli eventi tristi che sono accaduti nella mia vita e li trasformo in storie divertenti, in questo modo pur essendo consapevole che quegli eventi sono davvero tristi e dolorosi, ciò risponde ad una necessità di sopravvivenza.Trasformare la tragedia in commedia senza perdere il significato della tragedia. Sì, decisamente per fare questo ci vuole molta ironia!

Oggi che vivi nell’altrove, in un paese diverso da quello originario, come riesci a mantenere viva la tua identità e in che modo la metti in relazione con la tua nuova identità di esule e migrante?

Per me la questione dell’identità non è legata ad un paese specifico. Sono quello che sono, non perché vengo da un luogo specifico. Ho lavorato e viaggiato in diversi paesi da quando ho lasciato l’Afghanistan. Ho trascorso metà della mia esistenza di adulto lontano dal mio paese. Posso dire, ora, che ci sono molti paesi in cui mi sento come a casa. Patria è per me un luogo dove le persone mi sorridono abbastanza spesso.

Parliamo dunque dei paesi dove hai vissuto nel tuo esilio e dicci in che modo hanno influenzato la tua percezione della realtà? In che modo hanno determinato la topografia della tua anima?

L’esperienza di vivere in altri paesi vissuta dall’esterno è differente. Prima di lasciare l’Afghanistan conoscevo il mondo solo attraverso i libri, ma si sa i libri riflettono l’opinione di chi li scrive. Quando ho iniziato a viaggiare per conto mio, le cose stavano diversamente. Per esempio ho capito che non esiste un paese che sia un cattivo paese e un paese che sia un buon paese. Ogni paese ha le sue contraddizioni, una identità plurima. Certamente posso dire di aver vissuto bene in quei paesi di cui ammiro la cultura. Per esempio mi sento spiritualmente legato all’India dove questo alone di misticismo sembra realmente avvolgere ogni cosa. In India oltre che apprezzare l’architettura, la musica, la poesia ho anche riscoperto grandi scrittori e poeti che a loro volta hanno amato questa terra, penso a Octavio Paz o a Pablo Neruda.

Molti scrittori in esilio dicono che i luoghi verso cui sono andati non sono altro che lo specchio di quello lasciato. Un po’ come James Joyce che lasciata l’Irlanda ha trascorso gli anni seguenti cercando di ricreare la città lasciata. Per te è stato così?

Per molti anni dopo aver lasciato l’Afghanistan ho provato una profonda nostalgia e sentivo che l’Afghanistan era l’unico paese dove potessi vivere ed essere felice. Dopo 23 anni di esilio sono tornato nella mia terra e ho scoperto che non era il paese in cui avevo vissuto. Probabilmente prima di lasciare l’Afghanistan ho cercato di creare una patria interna a me. Questa patria interna mi ha creato un grande disorientamento tanto che dopo l’esilio l’associavo ad uno spazio reale. Penso di aver sempre cercato di creare una patria, non importa dove fossi e lo sto facendo ancora oggi.

Qual’ è stata la tua prima emozione quando hai lasciato ‘Afghanistan e il tuo primo pensiero quando sei giunto nel nuovo paese da rifugiato?

Quello che posso dire è che ho capito il significato di vivere come un rifugiato. Ho realizzato che i rifugiati sono le persone più impotenti del mondo. Ero considerato meno di niente in Pakistan, la prima tappa del mio esilio.

Prima dell’esilio eri uno scrittore piuttosto conosciuto nel tuo paese, cosa è cambiato in conseguenza della tua migrazione forzata?

Questo è stato l’altro volto della medaglia del mio esilio. Nel mio paese ero uno scrittore affermato, avendo cominciato a scrivere all’età di nove anni. Quando divenni un rifugiato in Pakistan, la sopravvivenza rappresentava la preoccupazione primaria anche sullo scrivere. Ero costretto a trovare i mezzi elementari per sostentarmi, non avevo tempo per mostrare alla gente nella mia stessa situazione, che sapevo scrivere. Quando sono venuto in Gran Bretagna è stato più o meno lo stesso, infatti se guardi alla mia bibliografia noterai che in diciotto anni ho pubblicato solo tre libri. Oggi le cose sono cambiate, negli ultimi quattro anni ho terminato due nuovi libri e un terzo è quasi completato, si tratta di un libro per ragazzi che recupera i grandi miti della tradizione culturale afghana.

Cosa significa abitare una nuova lingua?

All’inizio quando per la prima volta sono venuto in Inghilterra sentivo che non avrei mai potuto scrivere niente in inglese. Da quando ho cominciato a vivere in molti paesi di lingua inglese ho maturato la certezza che posso esprimermi in entrambe le lingue, sia l’inglese che il farsi.

La scrittrice sudafricana Nadine Gordimer dice che in quanto testimoni del luogo dove siamo nati la scrittura diventa anche la voce di un impegno socio politico. Credi che chi, più di altri, porta con se l’esperienza forte dell’esilio o della migrazione, non possa prescindere da un simile impegno?

Credo che il mio impegno politico sia fondamentalmente contro la politica stessa.

William Polmer in una delle sue poesie dice: Andiamo in un altro paese, non il mio né il tuo e ricominciamo… la speranza sarà il nostro nuovo passaporto, tutto il resto viene da sé. E’ questo lo spirito anche della tua esperienza?

Sento come se William Polmer e io avessimo condiviso la stessa anima nello scrivere questa poesia. Avrei potuto scriverle anche io queste parole.

Milan Kundera parla di sogno dell’esilio “Il giorno era illuminato dalla patria abbandonata, la notte dall’orrore di farvi ritorno. Il giorno le mostrava il paradiso perduto, la notte l’inferno che aveva fuggito. Qual è il tuo sogno dell’esilio?

La “mia” contraddizione si è realizzata quando sono tornato in Afghanistan dopo 23 anni.

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Anno 2, Numero 10
December 2005

 

 

 

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