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omaggio ad agota kristof

raffaele taddeo

Il 27 luglio scorso è deceduta Ágota Kristóf , grande scrittrice di origine ungherese, approdata in Svizzera nel 1956 dopo la fallita rivolta. il suo testo più significativo che l’ha resa famosa è La trilogia della città.
Non desidero fare un’analisi del libro che potrebbe andare a collocarsi fra le recensioni, nel caso mi venisse in mente di farlo, ma vorrei proporre alcune linee di lettura di questo testo, per nulla semplice e pieno di molti sensi e significati nascosti.
Intanto è opportuno mettere a fuoco una questione metodologica. Il testo visto come unico pone problemi diversi che se considerato nelle sue parti separate, specie se si considera che ciascuna di esse è stata composta in tempi diversi . Tuttavia il fatto che abbia poi unificato ciascuna di queste parti in un unico volume autorizza a considerarlo unitariamente.
Il romanzo si articola in tre parti e narra le vicende di due gemelli. La terza parte è una sorta di svelamento delle prime due. Il romanzo nelle prime fasi per la sua crudezza lascia a volte esterrefatti, specie in considerazione del fatto che protagonisti di comportamenti al limite del sadismo siano due bambini gemelli, quasi completamente anaffettivi.
Alla fine della seconda parte si viene a scoprire che tutto quello descritto fino a quel punto è un romanzo di uno dei gemelli (difficile capire se quanto si racconta corrisponda a qualche elemento di verità della sua vita o non sia tutto solo frutto di fantasia) che dall’età di quattro anni non ha più vissuto insieme al primo. “Per quel che concerne il contenuto, non può trattarsi che d’invenzione, poiché né gli avvenimenti descritti né i personaggi rappresentati sono mai esistiti nella città di K., fatta eccezione tuttavia per una sola persona, la presunta nonna di Claus T., di cui abbiamo ritrovato traccia”.
Si tratta quindi del romanzo di un romanzo o di un romanzo nel romanzo. Sarebbe da riflettere se si possa considerare qualcosa di simile alla questione del teatro nel teatro di ascendenza pirandelliana. Come avviene per lo scrittore siciliano, i personaggi acquistano o hanno una vita autonoma del tutto indipendente anche dalla volontà del loro creatore. In questo caso la scrittrice, ideati i personaggi gemelli, poi avrebbe scritto una storia che non le apparteneva e avrebbe recuperato le linea ideativa iniziale solo nell’ultima parte. Questa possibilità interpretativa sussiste anche nel caso che ciascuna parte fosse stata scritta in tempi lontanissimi uno dall’altro, e da questo punto di vista ciascuna parte della trilogia non si spiegherebbe se considerata isolatamente.
I due fratelli, così si narra nell’ultima parte “la terza menzogna” (ma già questo titolo può far sorgere altri problemi), fino all’età di 15 anni circa sono stati condizionati nella vita da altri che li hanno cresciuti. Poi ciascuno indipendentemente sceglie la propria autonomia. Uno, Lukas, rimane nella città di nascita insieme alla madre, una donna al limite della psicosi. L’altro, Claus, decide di andar via dal paese d’origine e di stabilirsi in un altro, più liberale rispetto al primo che era caduto sotto un regime dittatoriale.
Tralasciando tutte le altre implicazioni dettate dalla narrazione mi soffermerei sugli aspetti dell’allontanamento dal territorio d’origine da parte di uno e della permanenza da parte dell’altro, elementi molto significativi sul piano della poetica della migrazione.
I due fratelli raggiungono condizioni economiche similari, non elevate, chiare quelle di Lukas , un po’ meno quelle di Claus, ma non risulta per nulla molto più agiato, anzi viene esplicitato che la migrazione non gli ha portato fortuna. Ciò può condurre alla interpretazione che la migrazione è un fatto insignificante rispetto al successo economico nella vita.
Gli aspetti biografici dell’uno e dell’altro fratello invece tendono a fornire maggiori categorie rispetto agli aspetti generatori della migrazione.
Claus, ferito accidentalmente dalla madre, rimane emarginato e non più ricercato dai suoi familiari. E’ affidato, dopo essere stato allevato per qualche tempo in una sorta di orfanotrofio, ad una donna, chiamata “nonna”. Forse è da questo momento che in lui nasce una “cattiveria” o indifferenza verso tutti.
Da questo punto di vista la mancanza di stretti legami di affetto con il gruppo familiare determina sia uno straniamento della propria vita da bambino prima e poi da adolescente e successivamente uno spaesamento che induce al dispatrio. Il legame con la terra d’origine è vincolato dalla condizione affettiva stabilitasi con il gruppo familistico. Spezzato il primo si rompe automaticamente anche il secondo.
Questa categoria è rafforzata anche dalla morte della nonna di Claus, che, dopo aver perso ogni legame affettivo con la famiglia, è privato anche dell’ultimo. La migrazione, sembra quindi emergere dal romanzo della scrittrice di origine ungherese, ha come causa determinante la rottura di tutti gli affetti, in prima istanza di quelli familiari.
Claus, però è anche un emarginato sul piano sociale. Incomincia ad esserlo quando è nell’orfanotrofio, e continua ad esserlo vivendo dalla “nonna”. Egli avverte questo suo distacco dagli altri nel contesto della comunità in cui vive. Quando la nonna muore sembra uno sradicato. Questo secondo aspetto conduce alla separazione dal proprio territorio e alla decisione dell’espatrio.
Un altro elemento mi pare molto significativo ed è riferito alla impossibilità del ritorno. Sul tema del ritorno ne ho trattato diffusamente in un mio testo. La storia di Claus riconferma ancora una volta quanto intravisto nel mio saggio. Egli, che scrive romanzi, va alla ricerca del fratello, poeta, ma quando lo trova viene misconosciuto, anche se riconosciuto. La sua presenza avrebbe comportato molte più alterazioni, forse impossibili da sostenere.
Il dramma di ogni emigrazione è racchiuso in questi aspetti: l’intolleranza da parte dell’ambiente d’origine e della famiglia nei confronti di chi è in qualche modo diverso; l’incertezza del successo nel fatto migratorio (la migrazione si lega a situazioni di classe sociale deprivate); l’impossibilità del ritorno, che, quando si lega alla disaffezione anche del territorio ospitante, diventa veramente la premessa ad una tragedia.
Un’ultima considerazione va fatta sulla lingua. Certamente occorrerebbe leggere i testi in francese per fare considerazioni più precise e dettagliate, ma se il traduttore è stato minimamente fedele allo spirito del testo originale emerge prima di tutto una notevole differenza fra la prima parte della trilogia, quella intitolata “il grande quaderno” e le altre due parti. Infatti lo stile linguistico nella prima parte è asciutto, fatto essenzialmente da paratassi, ma specialmente del tutto privo di descrizioni che coinvolgono anche aspetti del sentimento. Lo stile è del tutto consono alla caratteristica psicologica dei due gemelli. C’è una omologia significativa fra lingua e personaggi. L’anaffettività dei due gemelli è in sintonia con l’asprezza deli linguaggio. La lingua si modifica nella seconda e specialmente nella terza parte, quando i personaggi sono altro rispetto alle prime due parti e hanno manifestazioni più umane, più cariche di sentimento. Le caratteristiche della lingua usata da Ágota Kristóf è quella di “, un’analfabeta”, come si definiva lei, oppure è la conquista della libertà che si raggiunge quando si è capaci di padroneggiare una lingua non propria e si riesce ad esprimersi dando corpo a personaggi e sentimenti? Sarebbe diventata Ágota Kristóf una grande scrittrice anche senza la migrazione linguistica?

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Anno 8, Numero 33
September 2011

 

 

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