El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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terraferma. introdurre tahar djaout

diana osti

Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia l’antidoto permanente alla legge della giungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre a costituirne la ragion d’essere.
Iosif Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, 1987

Chi era Tahar Djaout?

Pochi riescono a rispondere a questa domanda. Forse, tra gli studiosi di letteratura maghrebina e francofona, qualcuno si ricorda di lui come il poeta assassinato, mentre, ai giornalisti, può venire in mente l’affaire Djaout. Ho sentito parlare di lui per la prima volta quest’anno, in occasione del ventesimo anniversario della sua morte. 2 giugno 1993 – 2 giugno 2013. Prima, non avevo idea di chi fosse, né del momento storico in cui si trovava il suo paese, l’Algeria, quando morì. Nei mesi di ricerche che hanno preceduto quest’articolo, una cosa è apparsa ben chiara: l’importanza data alla sua vicenda è maggiore rispetto all’attenzione verso la sua opera. E questo per me è divenuto il secondo, grande interrogativo. Per questo voglio iniziare partendo dal testo. Le poesie di cui propongo la traduzione provengono da una raccolta pubblicata postuma con il nome di Pérennes. Un libro introvabile, edito nel 1996 a Parigi, che accompagna le poesie scritte da Djaout dal ’75 fino alla morte con disegni acquerelli del pittore Hamid Tibouchi. È un omaggio alla sua vita e alla sua opera, ed è da lì, dalla fine, che parte il mio viaggio di riscoperta.
La ragione del mio avvicinamento a Tahar Djaout nasce dall’incontro con una poesia dal nome Terre Ferme, presente nella raccolta appena citata. Questa poesia, scritta nel 1983, ci parla in maniera diretta e sconcertante. Quando l’ho scoperta, era da poco avvenuta quella che i giornalisti hanno battezzato la “strage di Lampedusa”, e senza volerlo ho trovato le parole per quel silenzio che non aveva vie d’uscita. La poesia racconta dell’amore per una donna, che viene paragonata alla forza distruttrice del mare che a sua volta si ricopre di significati ambivalenti; ma vi è qualcosa, in questa poesia d’amore, che fa risuonare un’eco ancor più profonda. La noria è una macchina idraulica fatta per sfruttare l’energia della corrente acquatica; è come una ruota di mulino le cui pale sollevano e rigettano acqua. L’immagine di questo annegamento e affioramento ha inevitabilmente evocato in me la recente e triste vicenda dei naufragi nel mediterraneo, influenzato certe mie scelte traduttive (quella, ad esempio, di rendere Il me revient con «riaffiorano») e stimolato ancor più la necessità di proporre questo autore all’attenzione dei lettori di «El Ghibli».
Le poesie scelte per questo numero presentano in comune alcuni tratti importanti. Assieme a Terre Ferme, i testi Raison du cri e Comme avant contengono immagini di limiti e barriere che a loro volta contengono un movimento di spinta e forzatura per portarsi al di là di essi. Queste immagini sono veicolate da metafore a volte audaci, vivide, che si spingono ai limiti dell’astrazione. In Terre Ferme, ad esempio, sono le «insistances de sèves ruant dans les barreaux des peaux contraignantes»; in Raison du cri è l’«entêtement à bourgeonner», è il «soc constellant»; mentre in Comme avant si presenta sotto forma di attesa, di aspettativa delusa ma che lascia intendere la perseveranza, l’incaponimento a non cessare di guardare oltre il limite («la Route toujours très longue»). Queste metafore conferiscono ricchezza al suo linguaggio, sono la cifra che lo distingue, un francese dai toni caldi, a volte estremi, pulsanti. La bellezza della sua scrittura rende questo suo linguaggio fruibile al nostro sguardo, al nostro gusto, e rende a noi la sua storia più prossima di quanto possa sembrare.
Per ricostruire la sua vicenda biografica e intellettuale ho utilizzato soprattutto la fonte del documentario a lui dedicato Shooting the Writer, uscito per la BBC nel 1994 e introdotto da Salman Rushdie, oltre ad articoli, trovati sul web, di giornalisti algerini che hanno conosciuto e collaborato con lo scrittore in vita.

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«Avevamo due capre. Quando stava a lui portarle al pascolo, non mangiava. Io volevo che mangiasse, ma lui supplicava Dio di farlo morire. Diceva che avrebbe preferito morire piuttosto che star dietro alle capre tutta la vita1». Le parole della madre, Zineb Djaout, ci informano sull’educazione ricevuta dal figlio: con estrema volontà e determinazione, il giovane Tahar proseguì gli studi in condizioni di rigida povertà, studiando à la bougie, spostandosi con la famiglia dal villaggio di Oulkhou, in Cabilia, alla città di Algeri. Djaout ha origini berbere.
Dopo gli studi scientifici (si laurea in matematica all’Università di Algeri nel 1977), Tahar si avvicina immediatamente alla scrittura, dapprima alla poesia, poi alla prosa e al giornalismo, dedicandosi ad essa con un engagément assoluto e prioritario. Inizia a curare le rubriche culturali di «El Moudjahid» e di «Algérie Actualité», quotidiani algerini di espressione francese. Nello scegliere questa professione, dedicò la sua vita agli ideali di democrazia, libertà e giustizia sociale. Ideali precisi, forti, veicolati da una penna consapevole della necessità di una bella scrittura, e del potere della letteratura come forza liberatrice e propulsiva delle menti e dei popoli. Colto, energico e brillante, intellettuale dalla formazione sofferta (che lo accomuna a un altro grande di Algeri, figura altrettanto controversa peri i suoi compatrioti: Albert Camus), Djaout era tutto fuorché un anarchico o un avanguardista: i suoi romanzi sono attenti alla storia e con un piede nel passato riflettono sull’Algeria e sull’Islam contemporaneo, sulla diaspora, sull’immigrazione. La sua opera in prosa si compone di cinque romanzi2; in Italia, per Argo (Lecce) e Bibliofabbrica (Brescia) sono usciti in traduzione, rispettivamente, L’invenzione del deserto e L’ultima estate della ragione. Ma nulla più, nemmeno delle sue sei raccolte di poesie3. L’essere portatore delle tre anime dell’Algeria – quella berbera, quella araba e quella francese – era vissuto da Djaout come segno della ricchezza e della complessità caratteristiche del suo paese, della sua cultura. Questi concetti, così presenti sulla sua bocca e nella sua penna, scelse di esprimerli in francese, lingua di elezione che Djaout considerava sua tanto quanto l’arabo e il berbero, e questa maniera di vivere e scrivere, questa libertà di scegliere, non erano affatto neutre o scontate nell’Algeria post-rivoluzionaria.

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Quando, al ritorno dal suo soggiorno francese – durante il quale approfondisce i suoi studi con una borsa di dottorato in Science de l’information – fonda assieme ad altri amici e colleghi la rivista «Ruptures», Tahar ha già una bella famiglia: la moglie Farroudja e tre bambine, Nadia, Nabiha e Kenza. Tutte loro l’avevano seguito durante gli anni francesi, e la moglie ricorda di come fu determinato nel voler tornare ad Algeri una volta finita la borsa di studio. Tahar été un homme de parole. La sua scelta fu quella di restare nel suo paese, aiutarlo a nascere, a fare i conti con la sua storia, il suo passato, per costruire il futuro delle sue figlie. Per farlo, scelse di dar vita, per l’appunto, a una rivista. «Nous voulions confectionner l’hebdomadaire que nous aurions aimé lire nous-mêmes et qui n’existait pas sur la place4», dice Arezki Metref, collega e amico di Djaout. Una rivista creata passo per passo da un gruppo di amici intellettuali che avevano in comune molte cose: la necessità di esprimere un pensiero senza padroni, il desiderio di riflettere sulla società e sulla cultura, di interrogarla fin dentro i suoi tabù, il credo nella cultura come motore fondamentale di cambiamento e il valore, primo fra tutti, della laicità. Il destinatario del progetto di «Ruptures» era la classe media, soprattutto del panorama educativo: insegnanti, studenti, nella volontà di dar loro «quelques clés pour déchiffrer le pays, avec ses silences et ses tabous, ses secrets et ses sinuosités, et le monde5». L’Algeria degli anni ’90 stava affrontando un complesso cambio di assetto del potere. All’indipendenza dalla Francia nel 1963 era succeduto un ventennio di repubblica militare socialista, che vide primeggiare, sopra altre, l’ANP (Armata Nazionale Popolare), fazione dell’ FLN (Front de Libération Nationale), la più militarista e dittatoriale. Questo periodo ebbe come protagonista quasi principale il colonnello Houari Boumedienne, ex capo delle forze dell’FLN durante la guerra d’indipendenza. Alla sua morte, nel 1978, dopo un periodo di governo a partito unico socialista votato all’industrializzazione del paese, il potere viene preso in mano da Chadli Bendjedid, leader più democratico, e pian piano inizia lo smembramento del potere accentrato dell’FLN.
Nel 1990, per la prima volta in Algeria, alle elezioni amministrative si può scegliere fra più di un partito. A vincerle è il FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, che viene però rovesciato da un Colpo di Stato militare nel 1992. La reazione del Fronte Islamico è molto violenta: iniziano due anni di guerriglia e terrorismo, di omicidi politici, soprattutto da parte dell’ala più estrema del movimento, il GIA, Gruppo Islamico Armato, dedito agli omicidi fra i civili, soprattutto funzionari, intellettuali e giornalisti laici.
Ruptures nasce e muore sotto questa congiuntura astrale. Il 26 maggio 1993 si consuma, nei pressi Algeri, il primo di una serie di attentati rivolti a intellettuali laici. Tahar Djaout viene brutalmente freddato mentre sedeva nella sua auto, da un giovane che gli punta la pistola alla testa e spara senza esitare. Dopodiché, fugge con la sua auto lasciando il corpo in terra. Morirà il 2 giugno 1993, lasciando un buco a forma di padre nel cuore delle sue figlie e della moglie. Ma non solo. Lascerà un progetto culturale che dopo la sua morte non avrà più il coraggio di andare avanti. Lascerà un buco nel mondo della cultura e del giornalismo algerini e non. Lascerà tante domande, tanti interrogativi, tante sospensioni di senso.
Non ci ha lasciato con solo dei vuoti, però: naufraghe in mezzo ai perché e ai punti interrogativi, ci ha lasciato le sue opere.

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Perché non sappiamo niente di lui? È stata la banalità del male che ci ha lasciati senza parole?
Come ci insegna Frantz Fanon, il silenzio non può essere, a lungo termine, la giusta cura al trauma. È il linguaggio che ci salva la vita. All’incontro con la verità, si ha sempre una scelta: tacere e morire, o parlare e morire, come dice Djaout stesso in uno dei suoi testi divenuti più celebri6.
Il suo grido è arrivato fino a qui, fino a oggi. Raccoglierlo e diffonderlo è l’unico modo per restituirci la dignità derubata da questo silenzio. Studiare la sua figura controversa, inserirla in una storia, in un futuro, è quello che bisogna proporsi di fare per non lasciare cadere i suoi insegnamenti come frasi lasciate stingere sul muro di qualche stazione. Contestualizzare, scavare, continuare: come si proponeva la redazione di Ruptures.
Chiedo scusa ai lettori e collaboratori algerini, arabisti o studiosi del maghreb, o in ogni caso ai più esperti, per il mio approccio dilettantesco alle questioni politiche algerine. La letteratura comparata necessita di servirsi di questi strumenti di analisi per restituire dignità e affinare l’interpretazione dei testi. Malgrado io creda fermamente in questo approccio che coinvolge la storia e l’attualità, resto comunque un’inesperta a caccia di ulteriori illuminazioni e chiarimenti. Benvenuti saranno questi ultimi.
Voglio concludere questa introduzione, che tale è e nulla di più vuole essere, con le parole di Nadia Djaout, figlia dello scrittore: « Tu es une grande perte pour l’Algérie et pour la culture; lire et traduire Tahar Djaout est le meilleur hommage que nous puissions te consacrer. Que ton repos soit aussi doux que fut ton cœur7».

Ora, assieme ai perché che costellano questa vicenda, ne possiamo sommare un altro. Forse non è elegante iniziare e concludere un articolo con due diversi interrogativi; tuttavia, porre questo quesito è stato mio proposito sin dall’inizio.
Perché non stiamo leggendo Tahar Djaout?
Perché non lo si traduce?
Per quale ragione?
Pourquoi?

1 La fonte di questo discorso diretto è l’intenso documentario della BBC Shooting the writer, reperibile su YouTube.
2 Ovvero L’exproprié (Sned 1981), Les chercheurs d’os (Seuil,1984), L’invention du désert (Seuil, 1987), Les rets de l’oiseleur (Enal, 1984), Les Vigiles (Seuil,1991) e il postumo Le dernier été de la raison (Seuil, 1999).
3 Solstice barbelé (poesie 1973-1974), Sherbrooke (Québec), ed. Naaman, 1975; L'Arche à vau-l'eau (poesie 1971-1973), Parigi, ed. St Germain-des-Prés, 1978; Insulaire & Cie (poesie 1975-1979), Sigean, Editions de l'Orycte, 1980; L'oiseau mineral (poesie 1979-1981), Algeri, L'Orycte, 1982; L'etreinte du sablier (poesie 1975-1983), Orano, Centre de Documentation des Sciences Humaines, 1983; Les mots migrateurs, une anthologie poetique algerienne, Algeri, Office des Publications Universitaires, 1984; Pérennes (poesie 1975-1993), preceduto da Pour saluer Tahar Djaout di Jacques Gaucheron, copertina e disegni a china di Tibouchi, Parigi, "Europe/Poésie, Le Temps des Cerises", 1996
4 fonte web Le soir d’Algierie http://www.lesoirdalgerie.com/articles/2013/01/13/article.php?sid=143908&cid=8
5 Ibidem
6 «Le silence, c'est la mort;/ et toi, si tu te tais, tu meurs/ et si tu parles, tu meurs;/ alors dis et meurs... »; attribuito a Tahar Djaout, è in realtà un detto di Lao Tseu con il quale lui conclude il suo ultimo articolo di Ruptures.
7 Fonte web Liberté Algerie http://www.liberte-algerie.com/culture/hommage-a-la-memoire-de-tahar-djaout-mon-pere-115265

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Anno 10, Numero 42
December 2013

 

 

 

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