Nelle pagine di
el-ghibli siamo abituati a trovare quasi costantemente testi, sia in prosa che in poesia, di Julio Monteiro
Martins, testimonianza di una generosità ineguagliabile. Solitamente riceviamo
da lui racconti e solo raramente poesie, ma evidentemente anche la poesia è uno
dei suoi seri impegni creativi ed intellettuali. La grazia di casa mia è
una silloge poetica che, come si legge nella postfazione di Alessio Pardi, ha
richiesto molto tempo (oltre una decina d’anni) per essere completata.
Alcuni elementi
presenti nella suddetta postfazione sono importanti anche e non solo per
comprendere l’intento poetico dello scrittore di origine brasiliana. Mi
riferisco essenzialmente alla sintonia di pensiero fra quello di Platone e
quello di Julio Monteiro Martins. Alessio Pardi trova che alla base della
poesia del poeta italo brasiliano ci sia la concezione del mondo delle idee
platonico, idee che sono perfette e che la poesia attraverso le parole le
riscopre nella realtà e le fa riaffiorare nella sua verità.
Io preferisco
soffermarmi su altri aspetti della organizzazione della poesia di Julio
Monteiro Martins. Uno degli elementi che immediatamente affiorano è la
struttura di una poesia che sembra piuttosto una proesia perché generalmente ci
si trova di fronte a frasi, non diverse da quello di una prosa, che appaiono
solo spezzettate così da formare dei versi. Lo scarto fra linguaggio della
prosa e quello della poesia è quasi annullato. Le figure poetiche, le
metafore, sono quasi del tutto assenti.
Ciò che fa poesia è il senso ultimo di tutta una composizione. Già questo
elemento sta ad indicare una caratteristica fondamentale del fare poesia di
Julio. Egli predilige un linguaggio semplice colloquiale eliminando
ricercatezze terminologiche che selezionerebbero immediatamente il pubblico dei
lettori. Ma questo dato avvicina moltissimo la modalità della organizzazione
della poesia a quella della struttura
della prosa dello scrittore di origine brasiliana. Egli infatti è noto anche per
aver introdotto coerentemente in Italia la struttura del racconto breve in cui
spesso personaggi non sono solo uomini o donne (bambini e bambine), ma anche
oggetti, situazioni, arredamento. Il personaggio è dato dalla situazione che la
scansione spazio-temporale assegna a
qualcosa, a qualcuno. Sia il prof. Gnisci che il sottoscritto avevano
individuato nella scrittura di Julio Monteiro Martins una sorta di fotogrammi,
così che le raccolte di narrazioni diventavano mostre fotografiche. La ridotta
presenza di funzioni cardinali, come direbbe Ronald Barthes, fanno sì che ogni
testo narrativo possa dirsi un testo di poesia,
cioè la composizione narrativa diviene in sé una composizione di poesia.
Qualcosa di analogo avviene nelle composizioni di poesie perché, proprio questa
struttura di proesia sembra di potersi trasformare da un momento all’altro in una composizione
narrativa e non poche poesie hanno proprio un andamento narrativo, così che in
Julio Monteiro Martins la narrazione si trasforma spesso in poesia e la poesia
assume il contorno di una narrazione.
La silloge La
grazia di casa mia propone diversi temi che è opportuno analizzare perché
importanti e significativi. La prima tematica che si propone subito con due
poesie iniziali riguarda la poesia e la
sua funzione nella società attuale, ma anche il suo raggio d’azione. E’ appunto con una narrazione versificata che
ci si vuole dire che cosa avviene nell’oggi con la poesia, che seppur si
prepari come una donna elegante,
tuttavia l’accidente della pioggia, delle pozzanghere, non le permette di arrivare
all’appuntamento con una apparenza decente, ma trasandata. “E ti presenti
così?/ - Sono riuscita ad arrivare,/ ma in queste condizioni..”…”Allo specchio,/
mi ricordo,/ mi sembravo proprio ammodo… -/ bisbigliò tra sé/ la poesia
disfatta,/ mentre allungava la mano/ per raccogliere il piattino/ con gli
avanzi di torta.” Chi accoglie la poesia
e le offre un piatto d’avanzi è un vecchio.
Sembra che ci sia, pur senza volerlo, una visione pessimistica della
presenza della poesia nella situazione odierna che non fa altro che
abbruttirla, non riconoscerla, e specialmente appena tollerarla e accettarla ma da un anziano. La
poesia sarebbe quindi lontana dai giovani, non si legherebbe alla dinamica
giovanile presa com’è da frenesia e
disattenzione totale. Il secondo testo
riguarda ancora la poesia che è presente in ogni cosa e non ha temi o
situazioni privilegiate. In qualche modo riprende la polemica contro gli stili
di ascendenza classico-latina per cui la poesia potrebbe esserci solo in temi
elevati. “Che c’entra il frigorifero/
con il monte delle nebbie?/ E dov’è la poesia,/ caro mio?/ Eh be’,/ tutto
c’entra con tutto,/ e la poesia è ovunque,/ caro mio.”…”Sì, perché il fatto/ è
che tutto c’entra./ C’entra la luna/ con le onde del mare/ - così dicono./
C’entra il culo/ con i pantaloni./ C’entra il miele/con il grasso/ e il
percorso/ con i calli.” La poesia allora è nel quotidiano, nella vita di tutti
i giorni, non ha nulla di superiore ai fatti che
accadono ogni giorno e alle stesse necessità biologiche. “Anche Eliot si
imbattè / in questo dubbio/ before
the taking/ of a toast and tea.[ prima l'assunzione di un brindisi e tè]/
Io invece/ - ho già deciso -/ prendo il tè / con I biscotti al burro.”
Un altro tema
significativo riguarda la parola, la sua capacità di reificazione, ma anche la
sua versatilità che si protende fino al gioco. Intanto la parola per il poeta è
stata una riconquista dal momento che ha dovuto “Lasciare la favela/ e
riacquistare la favella”. In questi due versi c’è tutta una storia perché il
lasciare la favela ha voluto significare quasi dimenticare la capacità di
scrivere perché come dice il salmo 136 non si può cantare lontani da
Gerusalemme; cioè è impossibile scrivere lontani dal territorio di nascita, a
meno che non si muore un po’ e si rinasce perché si assume un altro territorio,
diverso da quello di nascita, come proprio.
E la rinascita avviene anche nella sfera di applicazione della parola
alla realtà. “Avevo tanta paura/ dei sostantivi astratti/ che mi sentivo al
sicuro/ persino fra gli aggettivi”…”Forse ho capito/ che tutti i sostantivi/
sono astratti./ Che parola è parola/ e cosa è
cosa,/ e che è molto pericoloso/ scambiare una per l’altra”. Le parole
possono anche far giocare nel loro rincorrersi, nel loro avvicinarsi nel
significante ed essere distantissime nel significato. “Pupazzo,/ pompetta,
pompelmo/ tafferuglio, baruffa,/ buchetta, bucaniere,/carboniere, carabiniere/
(sono fortissime/ queste parole straniere)”. E qui ci troviamo di fronte ad un
concetto dal molteplice significato perché se “parole straniere” è riferito
solo a “carabiniere” ciò potrebbe alludere alla sua derivazione dal francese,
ma se è riferito all’insieme della parole citate in precedenza allora quell’espressione “parole straniere”
assume un altro significato perché rivela ancora il forte legame che vi è fra
il poeta e la sua lingua natia perché ogni altra è sentita ancora come straniera.
Entra così in contraddizione e conflitto proprio con quanto espresso nella
poesia precedente e cioè “Lasciare la favela e riacquistare la favella”.
Poi abbiamo il
tema dell’amore espresso dal poeta con
brevi racconti in poesia che ne evidenziano
la sua incarnazione più che la sua glorificazione o esaltazione. In Accoppiamento il poeta vede
l’amore, con tutti i suoi umori, come possibilità di difesa dal mondo: “Hanno
capito/ che il mondo fuori/ non resterà fuori/ per molto”…”Ma a quel
punto/sudore e saliva,/ sperma e lacrime,/avranno ricoperto/i loro corpi
fusi,/saranno scomparsi/in fondo ai loro umori”. Molto più significativa,
realistica, è la poesia Melania in cui emerge la fatica di ogni giorno
dell’io di vedere la propria amata assorbita da molte faccende nobili,
altruistiche, di impegno sociale, ma inconsapevole della guerra che gli scatena
quotidianamente “e io non potevo spiegarle/ che la guerra è anche qua
dentro,/in questo studio dormitorio,/dove una lesione ingiusta/ un colpo
d’amore sottratto,/ a ogni mattina/ apre le porte a tutte le furie,”. L’amore
sentito come tensione, inappagamento del desiderio che genera frustrazione ma
continua rinascita del desiderio, vera spinta e cardine di ogni duraturo
amore. (Si racconta che Petrarca abbia
rifiutato di sposarsi per paura che con l’appagamento venisse meno il desiderio
e con questo anche l’amore).
In uno
scrittore-poeta i cui natali sono altrove non poteva mancare il tema
dell’espatrio. E’ già stato annotato qualcosa in precedenza ma Vivere in
esilio è un testo che esprime in pieno
la posizione e la condizione dello
sradicamento in cui si sente condannato il poeta. Intanto usa la parola
(in questo caso alla Leopardi) “esilio”, carica di significato perché il poeta,
pur avendo lui stesso scelto di abbandonare il Brasile si ritiene un esiliato.
L’esilio solitamente avviene quando si è cacciati via da un paese, se vi è
stato comunque un ostracismo; quando invece l’allontanamento da un territorio
avviene per libera scelta e ci si sente in esilio ciò è dovuto a rotture che si
sono avute nei confronti della società
da cui ci si è allontanati. Ci si sente in esilio perché qualche danno morale,
psicologico, più che materiale si è ricevuto. Ma poi il poeta accentua la sua
disappartenenza con quel “vivere” considerato un ossimoro quando è unito con
esilio. Fuori dal territorio di nascita, quando “violentemente” se ne è venuto
fuori è impossibile vivere. “Vivo l’esilio/ come funebre kermesse,/preparandomi
goffamente/per l’arcana,/classica tragedia:/morire in esilio./ Esalare l’ultimo
respiro/ in lontananza,/eternamente assente/dalla grazie di casa mia”. Come è
possibile vedere quest’ultimo verso da il nome a tutta la silloge. Una prima
interpretazione, senza la lettura delle
poesie o almeno di quest’ultima, avrebbe indicato in quel
titolo qualcosa di più sereno e pacifico, domestico, familiare, bonario.
Invece si rivela tremendamente angosciante perché ne esprime in maniera intensa
il dramma dell’espatrio e della disappartenenza.
E’ fuorviante
rispetto ai limiti di una recensione prendere in esame tutti gli altri temi
presenti in questa raccolta, ma mi sembra doveroso analizzare il tema dei
bambini, anzi dei bambini mai nati, cantati in due poesie, la prima Bambini e la seconda Ai
figli silenziosi. “I
bambini/cospirano per nascere”…”L’essere invisibile/ fa casa nel cuore/ dei
malaccorti/genitori./Da lì esce solo/ per testimoniare,/allegro e pieno di
malizia,/l’atto ansimante/della propria creazione”. Questo desiderio di avere vita, di
approfittare dei malaccorti genitori, dei preservativi rotti, dell’entrare
dentro improvvidamente o meglio inconsapevolmente, quasi che si realizzi una
“provvida sventura”, senza responsabilità, assume in Julio Monteiro Martins un
religioso inno alla vita, che gli conferisce tutta responsabilità della paternità:
“E’ a quelli/- non so nemmeno/quanti siete-/che non hanno visto il mondo/che
voglio dare/questo secondo e ultimo addio./ Vorrei avervi visto / dire la prima
parola,/fare un passo/ nel mondo dei viventi,/dirmi qualcosa/anche con i vostri
sguardi./Ma quegli occhi/non si sono mai aperti”…”Figli miei
abbozzati,/accennati, immaginati,/vostro padre vi pensa./E’ molto poco,/lo
so./Ma era poca l’aria/ nei miei polmoni/per una così lunga/traversata.”. Sì è
qualcosa di religioso, come afferma
Alessio Pardi, perché i bambini mai nati, anche solo pensati acquistano senso e
vita, acquistano qualcosa di sacro e la stessa unione delle persone si
sacralizza perché sacro è il frutto che avviene dal loro amore, dalla loro
commistione di umori, sudori, sperma.
La silloge di
Julio Monteiro Martins è un testo importante, intenso fatto di una poesia
semplice, discorsiva ma profonda ove ciascuno si rispecchia perché trova sempre
qualcosa che gli è proprio, che gli appartiene, che lo mette in discussione. In
questo sta la grandezza della poesia di questa raccolta perché l’esperienza del poeta diventa l’esperienza di
ogni lettore. La poesia di Julio non è lirica che si attorciglia in estetismi
inutili e fuorvianti, ma è una musica che fa riflettere proprio perché si
presenta semplice, leggibile come una prosa.
La poesia coesiste in ogni cosa e perciò, anche nel linguaggio, non si
discosta da ogni cosa, da ogni attività anche più umile e insignificante.
gennaio 2014